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Non lo faccio più. La violenza di genere nelle opere di Cristina Obber

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Academic year: 2021

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ISSN 2083-5485

© Copyright by Institute of Modern Languages of the Pomeranian University in Słupsk

Original research paper Received:

Accepted:

26.10.2016 20.03.2017

NON LO FACCIO PIÙ. LA VIOLENZA DI GENERE NELLE

OPERE DI CRISTINA OBBER

Gianluca Schiavo

Università di Bergamo Bergamo, Italia schiavo.gia@gmail.com

Parole chiave: violenza di genere, femminicidio, stalking, emancipazione femminile,

so-ciologia della letteratura

Leggendo i rapporti che periodicamente sono pubblicati da molteplici istituti ita-liani che si occupano di ricerca in ambito statistico e sociologico, uno dei dati che lasciano maggiormente esterrefatti è quello sulle violenze fisiche e sessuali subite dalle donne italiane.

Il 5 giugno 2015 l’ISTAT ha reso noti i risultati della seconda edizione dell’indagine sulla “Sicurezza delle donne”, finanziata dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio. Dalle pagine del rapporto, che si riferi-sce a una ricerca compiuta nell’anno 2014, si apprende che

la violenza contro le donne è fenomeno ampio e diffuso. 6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o ses-suale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni: il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e ten-tati stupri. Sono 652 mila le donne che hanno subìto stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri [Muratore 2015].

La violenza sistematica ai danni della parte fisicamente più debole della società è una realtà che tendiamo ad associare ai paesi in via di sviluppo, ancora molto lon-tani dai livelli di progresso ed emancipazione femminile che in Italia sono stati rag-giunti negli ultimi decenni. Desta dunque sconcerto l’apprendere che una donna ita-liana su tre, nel corso della propria vita, ha subito una delle forme in cui la violenza fisica può manifestarsi.

Il rapporto ISTAT prosegue con l’analisi della tipologia degli uomini che si rendo-no responsabili di tali reati: in molti casi si tratta di persone che sorendo-no o sorendo-no state

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te da relazioni affettive con le vittime. Le percentuali variano in base al tipo di reato commesso, raggiungendo l’apice nelle violenze sessuali, che nel 62,7% dei casi sono commesse da partner o ex-partner della vittima. Lo stretto legame esistente tra le vit-time e i responsabili dei reati contribuisce molto a far sì che nella larga maggioranza

dei casi le donne che subiscono violenza non la denuncino alle forze dell’ordine1.

I dati sono piuttosto allarmanti anche se prendiamo in considerazione la forma più grave di violenza psicologica, ovvero lo stalking. Nonostante l’Italia abbia dal 2009 una delle leggi più avanzate del mondo in materia di atti persecutori di tale natura, dal rap-porto apprendiamo che «3 milioni 466 mila donne hanno subìto stalking nel corso della vita, il 16,1% delle donne. Di queste, 1 milione 524 mila l’ha subìto dall’ex partner».

Di particolare interesse sono anche le ricerche che da anni l’Istituto EURES, in col-laborazione con l’agenzia ANSA e con il dipartimento di pubblica sicurezza del mini-stero dell’interno, conduce sul cosiddetto fenomeno del ‘femminicidio’, ossia l’omicidio volontario ai danni di vittime di sesso femminile e compiuto da persone ap-partenenti al sesso opposto. I risultati della ricerca analizzano in maniera molto parti-colareggiata la tipologia degli omicidi commessi all’interno della coppia. Dal resocon-to ANSA sul rapporresocon-to pubblicaresocon-to nel 2014 apprendiamo che

oltre 330 donne sono state uccise, dal 2000 a oggi, per aver lasciato il proprio compa-gno. Quasi la metà nei primi 90 giorni dalla separazione. Il rapporto Eures, diffuso oggi, li definisce i ‘femminicidi del possesso’, e conseguono generalmente alla deci-sione della vittima di uscire da una relazione di coppia; a tale dinamica sono da attri-buire con certezza almeno 213 femminicidi tra le coppie separate, e 121 casi in quelle ancora unite dove la separazione si manifesta come intenzione.

Il 45,9% avvengono nei primi tre mesi dalla rottura (il 21,6% nel primo mese e il 24,3% tra il primo e il terzo mese). Ma il “tarlo dell’abbandono”, segnala il dossier, ha una forte capacità di persistenza e di riattivazione nei casi di un nuovo partner della ex, della separazione legale, o dell’affidamento dei figli. Tanto che il 3,2% dei fem-minicidi nelle coppie separate avviene dopo 5 anni dalla separazione.

Il femminicidio è spesso un’escalation di violenze e/o vessazioni di carattere fisico. I dati disponibili indicano un’elevata frequenza di maltrattamenti pregressi a danno delle vittime, censiti nel 33,3% dei femminicidi di coppia nel 2013 (27 in valori assoluti) e nel 22,5% tra il 2000-2013 (193 in valori assoluti). Eures sottolinea “l’inefficacia/inadeguatezza della ri-sposta istituzionale alla richiesta d’aiuto delle donne vittime di violenza all’interno della coppia, visto che nel 2013 ben il 51,9% delle future vittime di omicidio (17 in valori asso-luti) aveva segnalato/denunciato alle Istituzioni le violenze subite” [Violenza... 2015]. La violenza di genere, in tutte le forme in cui essa può configurarsi, è al centro di

numerose opere narrative e saggistiche scritte negli ultimi anni da Cristina Obber2. La

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1 Il rapporto informa che solo nell’11,8% dei casi c’è denuncia di quanto accaduto.

2 Nata a Bassano del Grappa nel 1964, Cristina Obber è giornalista professionista. In ambito lette-rario ha esordito nel 2008 con il romanzo Amiche e ortiche, a cui negli anni successivi hanno fatto seguito numerosi altri volumi, sia di tipo narrativo che saggistico, il più noto dei quali è Siria mon amour (2013), in cui narra la drammatica vicenda reale occorsa alcuni anni prima a una sua conoscente, una ragazza italiana di origine siriana, nel corso di un soggiorno nel suo paese di origine. Il suo ultimo libro è il romanzo L’altra parte di me (2014), la storia dell’amore omosessuale tra due ragazze in età adolescenziale, il cui coming out è l’inizio di una vicenda

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grande frequenza con cui il tema ricorre nei suoi scritti conferisce loro un carattere di profondo impegno civile di cui l’autrice stessa apertamente parla nell’introduzione al saggio Non lo faccio più, un breve ma intenso réportage giornalistico in cui presenta i ri-sultati di un’indagine sul campo che ha condotto intervistando alcuni soggetti a vario ti-tolo coinvolti nel dramma della violenza di genere: vittime, rei e anche professionisti (psicologi, operatori sociali e criminologi) che si occupano dei vari aspetti del fenomeno. Questi non sono delitti «passionali», come alcuni giornali cercano di rinchiudere nella sfera privata dei sentimenti, questi sono i bollettini di una guerra non dichiarata ma che ci riguarda tutti e che si sta riversando sulle nuove generazioni.

I dati che emergono sulle violenze perpetrate su donne e minori ci dicono che siamo di fronte a un paese malato di una cultura parallela, più gretta e più fragile, ben celata nell’incapacità o nella non volontà di ammetterla ed affrontarla. […]

Sui media poco spazio, e raramente per approfondire. E così nel silenzio tutto si consu-ma senza nuocere all’Italia che luccica nei talk-show misogini, che balla con le stelle mentre le mogli non denunciano i mariti, le ragazze nemmeno lo stalking e i vicini si gi-rano dall’altra parte [Obber 2012: 11].

Il libro è dunque uno strumento di denuncia di uno degli aspetti più bui della socie-tà italiana contemporanea, e al tempo stesso di sensibilizzazione dei vari soggetti po-tenzialmente coinvolti in esso: gli uomini, che troppo spesso non sono in grado di ren-dersi conto della sofferenza che i loro comportamenti provocano; le donne, non sempre capaci di riconoscere i segnali di una violenza che potrebbe degenerare e poco disposte a denunciare l’accaduto alle autorità competenti; i giovani di ambedue i sessi, perché crescendo costruiscano una società in cui il valore dell’ uguaglianza tra i generi non sia solo un’astratta dichiarazione di principio, bensì una realtà concreta: «Non posso abituarmi a questo. Non voglio che nessuno si abitui, devo fare qualcosa perché nessuno si abitui». [Obber 2012: 8]

Questo intento porta la scrittrice a costruire intorno al libro un progetto di

sensi-bilizzazione che comprende anche un blog tuttora attivo [Non lo faccio più...]e un

ciclo di conferenze nelle scuole, per potersi rivolgere direttamente alle generazioni più giovani. Ci pare che tali parole riflettano anche l’intento da cui scaturiscono molti altri libri, anche di tipo narrativo, in cui l’autrice porta alla luce le molteplici forme in cui la violenza di genere può manifestarsi, non solo la violenza all’interno della coppia, che è al centro anche del romanzo La ricompensa (2011), ma anche quella omofoba che troviamo nell’ Altra parte di me e quella derivante da integrali-smo religioso e subcultura che è al centro di Siria mon amour.

La ricompensa narra la vicenda di Irene, infermiera di origini meridionali che vive

in una città del Nord, dove per anni porta avanti una relazione sentimentale molto tor-mentata con Alfredo, uomo sposato che, dopo averle a lungo nascosto di esserlo, le ha quindi promesso che appena possibile lascerà la moglie per costruire con lei un rap-porto stabile e alla luce del sole. Quella di Alfredo è sempre stata in realtà una consa-pevole menzogna: l’uomo sa bene che non avrà mai il coraggio di lasciare la moglie,

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piena di gravi difficoltà, non priva di elementi di profonda violenza psicologica, anche all’interno delle rispettive famiglie.

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non solo per ragioni affettive ma anche e soprattutto pratiche, visto che su un piano professionale ed economico egli dipende totalmente dalla famiglia della moglie e in qualunque momento potrebbe perdere tutto ciò che ha.

Il grande amore che Irene prova per lui fa sì che, per lei, il processo di presa di coscienza della vera natura del suo rapporto con Alfredo sia molto lento e tormenta-to. A lungo Irene è totalmente succube di Alfredo su un piano psicologico e, nono-stante alcune sue amiche (in particolare Giovanna, la sua caposala) cerchino di aprir-le gli occhi, ella rifiuta di rendersi conto che l’unica cosa a cui l’uomo è interessato è protrarre il più possibile una relazione extraconiugale con lei, che mai potrà tra-sformarsi in qualcosa di diverso.

Proprio la tardiva presa di coscienza della realtà da parte di Irene e il suo pro-gressivo distacco da lui porteranno Alfredo a perdere sempre più il controllo. Il ren-dersi conto che la sua amante ha trovato finalmente la forza per liberarsi di lui lo porta dapprima a compiere atti persecutori sempre più violenti e ossessivi e infine ad aggredirla in maniera premeditata, cercando di ucciderla con una coltellata al ventre. All’autrice non interessa tanto creare un clima di suspense intorno al gesto omicida, quanto ricostruire il percorso psicologico che porta a tale esito. Per questa ragione, invertendo l’usuale successione cronologica delle vicende romanzesche, la descri-zione dell’aggressione apre la narradescri-zione, invece che chiuderla, cedendo poi il posto all’illustrazione dell’antefatto:

Alfredo camminava sicuro di sé. Dio, come si sentiva sicuro, il mondo davanti a lui, nelle sue mani. Irene nelle sue mani, con tutta la sua solarità, la sua sfrontatezza, la sua presunzione di poter fare a meno di lui. [...]

Giunta nel sotterraneo dell’ospedale Irene si sistemò i capelli guardandosi nello spec-chietto e scese dall’auto con slancio, e con slancio Alfredo le conficcò il coltello nelle viscere, quelle viscere che ancora gli appartenevano, ma che gli avevano negato il grembo. Irene pensò di dire «Ancora?», ma rimase con la bocca semichiusa, sospe-sa. Sentiva un grande calore inebriarla, stordirla, inzupparle le cosce. Lui la guardò scivolare ai suoi piedi, si godette la tristezza del suo sguardo, il sottile lamento. Breve, ma abbastanza lungo da appagarlo totalmente. Un piacere dal profondo, più intenso dell’ossessione e del sesso. Una sensazione di onnipotenza. Si allontanò con in tasca la sua Irene, il bene, il male e ogni sua soggettiva sfumatura. [Obber 2011: 12. Le fra-si in grassetto sono state evidenziate da noi]

Nella parte finale del romanzo l’attesa del lettore si concentrerà dunque non sull’esito del rapporto tra Irene e Alfredo, quanto su se la donna, gravemente ferita, riuscirà o meno a sopravvivere. Il romanzo si chiude proprio con Irene che, dopo un lungo coma, torna cosciente e richiama l’attenzione di Stefano, il suo nuovo compagno (la cui apparizione nella sua vita aveva scatenato la furia omicida di Alfredo), rivol-gendogli la frase scherzosa che spesso gli diceva quando lui la baciava con la barba in-colta: «Pungi!».

Le espressioni che abbiamo evidenziato in grassetto mettono in risalto come uno dei principali fattori che hanno portato l’uomo a premeditare tale gesto è proprio il fat-to che Irene, alla fine di un processo lenfat-to e sofferfat-to, ha deciso di mettere fine al loro rapporto e ha iniziato a ricostruirsi la vita accanto a un altro uomo. Alfredo vive ciò

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come un’inaccettabile ribellione di una donna a cui egli morbosamente guarda non tanto come persona amata quanto come sua proprietà personale: si avvicina a lei e af-fonda il coltello nelle viscere «che ancora gli appartenevano», e dopo l’aggressione si allontana «con in tasca la sua Irene».

Nei capitoli successivi, dedicati in larga parte alla narrazione delle vicende che hanno portato a tale drammatico epilogo, più volte le reazioni rabbiose di Alfredo fan-no emergere una visione del rapporto di coppia in cui la donna è considerata più come proprietà dell’uomo che come l’oggetto di amore all’interno di una relazione paritaria. Ciò che è davvero essenziale è la volontà dell’uomo, mentre le opinioni della donna sono un dettaglio non particolarmente rilevante. Quando Irene trova finalmente la for-za di comunicargli la sua decisione di troncare il rapporto, nella reazione di Alfredo non c’è spazio per il dolore di chi ha appena perduto la persona amata; da essa emerge solo il rabbioso rifiuto del principio che la donna possa ribellarsi alla sua volontà. La decisione di Irene gli ha fatto all’improvviso crollare

la certezza rassicurante di averla a disposizione, di averla tutta per sé, di possederla. Lo aveva lasciato ma per lui non era finita, non era finita per niente». La rabbia lo porta a fare irruzione a casa sua urlando: «Chi credi di essere? Non puoi trattarmi così! […] Lo dico io quando questa storia finisce!» [Obber 2011: 157].

Dopo di che cercherà di violentarla, imponendole dunque un sesso che dimostra di considerare un atto dovuto da parte di una donna a cui nega il diritto di decidere cosa fare della propria vita. Sarà l’inizio di uno stalking sempre più asfissiante, che sfocerà nell’aggressione omicida.

Ampia parte del saggio Non lo faccio più, come detto, è dedicata al racconto dei colloqui che l’autrice ha con numerosi professionisti che si occupano della violenza di genere, anche lavorando a contatto con detenuti che hanno subito condanne per reati di tale natura, talvolta anche ai danni di vittime minorenni. Nel corso di tali conversazioni il discorso verte più volte sul fatto che, nella forma mentis di molti uomini italiani, a dispetto del notevole livello di emancipazione femminile che il paese ha raggiunto, sopravvivono forti tracce di una visione primitiva del rapporto tra i sessi, retaggio dei secoli passati. Essa è totalmente scomparsa dalla dimensione ‘pubblica’, dai discorsi che gli uomini italiani fanno alla presenza di altre persone, ma evidentemente sopravvive allo stato latente in alcuni di loro, riemergendo con violenza in alcune situazioni fortemente coinvolgenti su un piano emotivo, come ad esempio le crisi di coppia. L’Italia è diventata uno dei paesi più avanzati e progrediti del mondo, nella cultura ufficiale e nelle leggi dell’Italia contemporanea non c’è più spazio per una visione del rapporto tra uomo e donna fondata sulla subalternità di quest’ultima. In verità, come Obber stessa fa osservare, l’abolizione delle ultime norme fondate sulla discriminazione di genere è molto più recente di quanto si po-trebbe credere. Solo nel 1968 la Corte costituzionale ha abrogato l’articolo del codi-ce penale che puniva con pena detentiva l’adulterio, ma solo qualora esso fosse stato commesso dalla moglie. Fino al 1981 il codice penale prevedeva anche che il reato di stupro si estinguesse se la vittima avesse deciso di sposare lo stupratore, il che in molti casi, soprattutto al sud, spingeva le famiglie a fare pressioni sulle ragazze

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af-finché sposassero chi le aveva violentate, cancellando quella che era considerata come una grave macchia al loro onore. Un’altra norma dello stesso codice stabiliva anche un forte sconto di pena per l’omicidio volontario, qualora la vittima fosse stata

sorpresa in una situazione di «illegittima relazione carnale»3.

Ad ogni modo, nell’ordinamento giuridico dell’Italia di oggi, di tale subalternità non c’è più traccia, e la piena parità dei sessi è ormai uno dei cardini della ‘autorappresenta-zione’ della società italiana contemporanea. Coloro che in pubblico sostenessero idee di-verse sarebbero oggetto di una riprovazione profonda e generalizzata. Passando però alla sfera privata, nella psiche di molti uomini italiani sopravvive un fondo oscuro e ben di-verso, rappresentato da un istinto di prevaricazione che emerge e sfocia in gesti violenti quando dei comportamenti femminili lo mettono in crisi: il rifiuto di avere un rapporto sessuale, un comportamento domestico non sottomesso, fino a giungere alla decisione di mettere fine a un rapporto di coppia. Paradossalmente proprio il notevole livello di emancipazione e autonomia femminile raggiunto in Italia fa sì che molto spesso si creino le condizioni che portano all’irrompere di tale parte buia dell’animo maschile.

Su tali meccanismi si sofferma Silvano Bordignon, psicologo specializzato nelle relazioni di coppia, raccontando all’autrice i risultati di un lavoro svolto con giovani in età adolescenziale di ambedue i sessi, che ha aiutato a portare alla luce molti aspetti della propria vita affettiva:

«Una riflessione che accomuna ragazzi e ragazze – spiega Silvano Bordignon – è la consapevolezza dell’esistenza ancora oggi dell’idea di un maschio dominante e posses-sivo, una dominanza ricondotta alla forza fisica».

I maschi hanno cercato una spiegazione nel fatto che quando si trova l’amore, questo di-venta parte di sé e quando l’altro «tradisce» questa alleanza ci destabilizza, ci confonde, e «qualcosa in noi si ribella contro di noi».

Quel «tradimento» risulta inconcepibile e nel bisogno di riappropriarsene si scatena il bisogno di possedere il partner. L’incapacità di affrontare il cambiamento scatena la rabbia e la violenza.

Ammettono che storicamente l’uomo si aggrappa alla propria forza fisica per competere con «la forza femminile» che gli manca.

Le ragazze riconoscono nella figura femminile l’oggetto sul quale l’uomo riversa le pro-prie frustrazioni, sul quale esercita il suo controllo.

Sottrarsi a questo controllo mette il maschile in un’inaccettabile condizione di inferiorità perché la persona che rompe una relazione d’amore è vista come dominante. Le ragazze osservano inoltre che la rivendicazione maschile del controllo e del possesso si rivela ben prima di azioni così estreme, attraverso una violenza psicologica intrisa di ricatti e condizionamenti che sono stupri della libertà e dei pensieri dell’altra persona, spesso intrappolata nei sensi di colpa a cui l’uomo la conduce.

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3 Art. 587 del codice penale, in vigore fino al 1981. Si trattava del cosiddetto ‘delitto d’onore’. Per la verità, nel caso in cui la vittima fosse un coniuge, la legge in teoria non faceva differenza tra moglie e marito, ma poi incredibilmente prevedeva che lo stesso sconto di pena fosse appli-cabile anche nel caso in cui la vittima fosse figlia o sorella dell’assassino (ma assolutamente non il figlio o il fratello...). Aggiungiamo che si è dovuto attendere addirittura il 1996 perché il codi-ce considerasse lo stupro come un reato contro la persona e non solo contro la morale.

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La domanda che ci si può porre è: fino a che punto la consapevolezza della situazione porta a superare comportamenti di prevaricazione e violenza consolidati nel tempo? La situazione è problematica [Obber 2012: 83-84].

Si tratta di una tendenza alla prevaricazione che però, ad avviso dello psicologo, spesso è il modo in cui i maschi nascondono una profonda sofferenza che deriva dalla propria fragilità di fronte alle donne: «In questa situazione, molto più comune di quan-to si creda, il maschio, per far fronte a questa inaspettata esperienza di fragilità e infe-riorità, si allea ad altri maschi, facendosi forte del gruppo o del branco, oppure fa ri-corso alla dimensione che, secondo lui, gli fa superare la sudditanza del rapporto psicologico con la ragazza, e cioè la forza fisica» [Obber 2012: 86].

Donatella Galloni è un’assistente sociale che da anni lavora presso il centro SVS (Soccorso Violenza Sessuale e domestica) della clinica Mangiagalli di Milano, specia-lizzato soprattutto nell’aiuto a donne vittime di violenza sessuale, a cui è fornito sia il primo soccorso sia un supporto psicologico a medio e lungo termine. Le sue parole evidenziano quanto sia difficile, anche per le giovani generazioni, liberarsi da schemi mentali lungamente consolidatisi nel corso del tempo:

Da parte maschile il problema è che non si ascolta, non si è capaci di ascoltare un No. A volte qualche ragazzo arriva a dire che non aveva capito che lei non volesse. Purtroppo il diverso modo di maschi e femmine di interpretare e dare significato alle pa-role e ai gesti che accompagnano le relazioni affettive e sessuali rispondono ancora ai comuni stereotipi dell’uomo che non deve chiedere mai e della donna che quando dice No vuol dire Sì [Obber 2012: 74].

Uno degli aspetti più sorprendenti su cui si soffermano gli esperti che Obber in-tervista è l’assoluta incapacità degli uomini violenti di rendersi conto della gravità di quanto fatto e della sofferenza che le proprie azioni hanno causato alle vittime. Molti tra i non addetti ai lavori tenderebbero forse a dare per scontato il contrario, ossia che dopo l’aggressione subentri ben presto la consapevolezza della gravità della vio-lenza compiuta. Gli interlocutori dell’autrice sono invece concordi nello spiegare che, quando la vittima sopravvive al reato, spesso chi le ha usato violenza fa una gran fatica a prendere coscienza dell’enormità di quanto accaduto, e riesce a farlo solo dopo un percorso psicoterapeutico, che sovente è parte del lavoro di rieduca-zione che ha luogo nelle carceri. In altri termini, negli uomini che si rendono respon-sabili di violenza di genere, c’è una totale incapacità di immedesimarsi in maniera autonoma nelle sensazioni della vittima, cosa che potrà accadere solo nel tempo, grazie a un percorso di accompagnamento da parte di professionisti del settore. E’ dunque una presa di coscienza indotta dall’esterno, e che mai ci sarebbe stata in via autonoma.

Di ciò ha modo di rendersi conto Obber stessa, partecipando a una seduta di psico-terapia di gruppo organizzata nel carcere lombardo di Bollate a beneficio di alcuni de-tenuti arrestati per reati a sfondo sessuale. Ciò che constata le lascia un profondo tur-bamento: «Come è possibile, mi sono chiesta, che il dolore non sia immaginabile, scontato, ovvio, che ci sia bisogno di farselo spiegare? Nuotiamo tutti nello stesso oceano o fluttiamo in mondi paralleli verso diversi orizzonti?» [Obber 2012: 49].

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Dopo aver intervistato Veronica, una ragazza che anni prima è stata vittima di uno stupro di gruppo mai denunciato, l’autrice effettua addirittura il tentativo di en-trare in contatto con uno degli stupratori, nella speranza che il tempo intercorso e la certezza di non essere più penalmente perseguibile possa spingerlo ad accettare di incontrare la ragazza. Spera che quel tempo che ha lentamente sanato una piccola parte delle ferite di Veronica possa aver fatto maturare anche il suo violentatore. Se così fosse, l’incontro tra vittima e carnefice, eventualmente alla presenza di uno psi-cologo, potrebbe dare inizio a un percorso di superamento di quello che in tal caso, fatte le debite proporzioni, sarebbe un trauma per ambedue. Nelle parole di Tomma-so però ella non trova nemmeno la minima ombra di maturazione e pentimento, ma solo la ripetizione ossessiva di quanto rispettabile e importante sia la sua famiglia,

come se lo stupro potesse maturare solo nei bassifondi della società4.

E’ la stessa incapacità e chiusura mentale che, nelle vicende romanzesche della

Ricompensa, ritroviamo nel comportamento tenuto da Alfredo dopo il ferimento di

Irene, durante il lungo coma in cui lei sprofonda, dal cui esito dipenderà anche la sorte giudiziaria dell’uomo. Irene infatti, per non far preoccupare amici e parenti, non ha fatto parola con nessuno del lungo stalking a cui egli l’ha sottoposta. Per tale ragione, dopo l’aggressione, gli inquirenti si limitano ad interrogare Alfredo in quan-to ex amante, ma senza mai seriamente sospettarlo di nulla.

Nei giorni successivi al fatto, nei suoi pensieri troviamo solo la rabbia per il non essere riuscito ad ucciderla e la speranza che i medici non riescano a salvarla. Con il passare del tempo, quando tutti iniziano a considerare seriamente la possibilità che il coma diventi irreversibile, Alfredo inizia anche a pregare. La parte iniziale dei pensieri che sempre più spesso rivolge a Dio farebbero anche ipotizzare un suo rav-vedimento: parlando con il Signore egli si dichiara consapevole di aver commesso un gesto gravissimo e totalmente pentito delle sue azioni. Il prosieguo della sua pre-ghiera ha però contenuti ben diversi: egli chiede a Dio di far morire Irene e supporta tale richiesta con motivazioni molto particolari:

Sapeva di aver fatto una cosa orribile, ma dalla quale non sarebbe potuto tornare in-dietro. E allora, non potendo rimediare, chiedeva al Signore di non rovinare anche la sua vita; non gli sarebbe servito il carcere per espiare, perché in cuor suo lo stava già facendo, era già pentito. Pentito ma pragmatico, così si presentava nelle sue preghiere. E certo che Irene avrebbe preferito smettere di respirare se non avesse potuto farlo da sola [Obber 2011: 167].

Nel periodo che precede gli atti violenti, all’assoluta incapacità degli uomini di rendersi conto di tutto il male che stanno facendo alle loro vittime si accompagna una notevole difficoltà delle donne stesse a prendere coscienza di quanto pericolosa stia diventando la situazione. In molti casi non riescono a rendersi pienamente conto del fatto che i sentimenti del partner non hanno nulla da spartire con l’amore ma so-lo con un attaccamento di tipo morboso e che, quando le violenze psicoso-logiche e

fi-———————

4 Cosa smentita da tutte le statistiche sul tema, come emerge anche dalle parole di Massimo Pari-si, direttore del carcere di Bollate che, intervistato dall’autrice, evidenzia proprio il livello socia-le e culturasocia-le medio-alto della maggior parte dei sex offenders.

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siche iniziano a caratterizzare un rapporto di coppia, il rischio di una degenerazione è sempre concreto e reale. Molto spesso la donna è psicologicamente succube dell’uomo, non riesce a concepire l’idea di poter troncare il rapporto di propria ini-ziativa e conseguentemente restare sola, si rifugia nella speranza che le immancabili dichiarazioni di ravvedimento dell’uomo (il non lo faccio più che dà il titolo al

sag-gio di Obber e anche al nostro testo)5 sia l’inizio di un’inversione di tendenza.

Da questo punto di vista il personaggio di Irene è perfettamente paradigmatico. Il tentato omicidio che la porterà a un passo dalla morte è già anticipato da numerosi segnali, piccoli e grandi: la gelosia ossessiva e il tentativo di tenere sotto controllo ogni momento della sua vita, poi le urla e gli insulti, quindi gli schiaffi, infine atti persecutori di crescente gravità, telefonate continue, pedinamenti, visite a sorpresa a casa sua. Tutto ciò dovrebbe farle comprendere quanto grave sia il rischio che sta correndo, ma Irene è totalmente sopraffatta e obnubilata dal suo amore per Alfredo e dal suo bisogno di averlo al proprio fianco, per molto tempo non ha la forza di concepire la propria vita senza di lui e di mettere fine a un rapporto che sta scivolan-do sempre più verso la tragedia finale.

Uno dei personaggi più riusciti della narrativa di Obber è quello di Giovanna, la sua collega e migliore amica, che non perde occasione per cercare di aprirle gli occhi e metterla in guardia. Con il passare del tempo Giovanna appare sempre più come la vera coscienza critica di Irene; le sue riflessioni sono quelle che Irene avrebbe dovuto fare se non fosse stata tanto succube del suo amante, ma che riuscirà a fare solo quando sarà ormai troppo tardi:

[Giovanna] cercò di usare un tono il più dolce possibile nel riportare in superficie le tappe storiche di cinque anni di manchevolezze subite, ricapitolando e comparando, in un’ennesima, scrupolosa e paziente ricostruzione dei fatti. Mentre Irene singhioz-zava, Giovanna sgranava cous cous e sgretolava certezze.

«Da domani si ricomincia!» proclamava, e Irene annuiva. «Accetti gli inviti alle feste. Vieni in palestra. Ti iscrivi a un corso di tango argentino, ti piace ascoltarlo, ti piacerà anche ballarlo!». E Irene continuava ad annuire. «E soprattutto ti scopi al più presto qualche bel dottore, tanto hai solo da scegliere» [Obber 2011: 85].

O ancora: «Ma cosa deve farti ancora quell’uomo perché tu dica basta? Calpestarti con un trattore? Legarti a un palo e cospargerti di benzina?» [Obber 2011: 122].

Parlando con l’amica Irene le dà quasi sempre ragione con convinzione ma poi, quando rivede Alfredo, non ha la forza e la lucidità per dare seguito a quanto si è ri-promessa di fare e dire. Leggendo la finzione romanzesca di Obber, ma ancor più leg-gendo i sempre più frequenti resoconti di cronaca che narrano i maltrattamenti che hanno preceduto i ‘femminicidi’ di cui la stampa dà notizia, si ha l’impressione che talvolta nei rapporti caratterizzati da grande violenza di genere, se quest’ultima sta

tut-———————

5 Dopo aver alzato per la prima volta le mani su Irene, «Seduto sul divano, con la testa tra le ma-ni, Alfredo ruppe il silenzio: – Scusami, scusami... – Il respiro ansimante. – Ho perso il control-lo...non volevo. Scusami. – […] le si avvicinò continuando a balbettare – Scusami – a bassa vo-ce. Si chinò su di lei e la prese tra le braccia, dove il miagolio di Irene si tramutò in un pianto dirompente che trascinò con sé lo spavento. […] Non si giustificava, ma le chiedeva di capire. E di aspettare. Irene decise di provarci. Che altro sapeva fare?» [Obber 2011: 48].

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ta da una sola parte, la morbosità caratterizzi invece il modo in cui ambedue vivono il rapporto. E’ morbosa la concezione proprietaria che l’uomo ne ha, che lo porta a voler controllare e dominare ogni aspetto della vita della propria partner, fino a deciderne la soppressione fisica quando si convince che «se non può essere mia, non sarà di nessun altro». Ci sono però tracce di morbosità anche nella totale dipendenza psicologica che la vittima ha verso il suo carnefice, nel suo bisogno di continuare ad averlo nella pro-pria vita, che spesso fa sì che non abbia la forza di ribellarsi e di rinunciare alla vita di coppia anche quando questa è ormai diventata una successione di crescenti violenze.

In Non lo faccio più Obber dedica ampio spazio anche al dramma dello stupro da parte di un conoscente, evento particolarmente devastante in quanto «viene meno la fiducia nel prossimo, ci si sente traditi e si soffre del fallimento del proprio progetto

sentimentale» [Obber 2012: 74]6.

Anche nei casi di stupro in cui il violentatore è una persona conosciuta, spesso l’aggressione è stata preceduta da una serie di segnali che avrebbero potuto far com-prendere alla donna che la situazione era ad alto rischio di degenerazione, ma purtrop-po la vittima non ha avuto una lucidità sufficiente per rendersene conto. In questi casi non è tanto l’amore e la dipendenza psicologica ad aver impedito alla donna di coglie-re i segnali di rischio, bensì un forte (e purtroppo unilaterale) senso dell’amicizia.

Le ferite psicologiche sono poi ancor più profonde e difficili da curare quando la vittima ha avuto degli atteggiamenti che possono aver facilitato lo stupro, come ad esempio l’ubriacarsi (riducendo dunque la propria capacità di reagire con lucidità agli eventi), o l’appartarsi volontariamente con l’uomo, eventualmente anche con at-teggiamenti eroticamente provocatori ma senza nessuna intenzione di far sesso. In tali casi, nella situazione di sconvolgimento che fa seguito allo stupro, si fa spesso strada nella psiche della vittima la pericolosa sensazione di essere anch’essa colpe-vole di quanto accaduto. Oltre a rendere ancor più pesanti le conseguenze psicologi-che della violenza, ciò contribuisce in maniera determinante anpsicologi-che a scoraggiare la denuncia alle autorità di quanto accaduto, che rimane dunque impunito.

E’ quanto realmente accaduto a Veronica, alla cui drammatica vicenda è dedicata tutta la prima parte di Non lo faccio più. Alcuni anni prima di essere intervistata dall’autrice, la ragazza, dopo esser stata drogata, è stata sottoposta a un lungo stupro di gruppo da parte di alcuni conoscenti con i quali, per gioco, ha avuto degli atteg-giamenti che, di per sé innocui, hanno però avuto effetti di provocazione su menti malate come quelle dei suoi futuri stupratori: «All’inizio devo ammettere che mi sentivo lusingata da quell’insistenza. […] facevo la stronzetta, agli spritz, con frasi come: – Scordatelo! Non mi avrai! – Ero superficiale, non mi fermavo a pensare alle cose, le facevo e basta» [Obber 2012: 22].

Le sue parole fanno emergere con chiarezza, oltre all’incredulità per il fatto che tanto male le sia provenuto da ragazzi che giudicava amici e con i quali amava usci-re, soprattutto quanto devastanti siano le conseguenze psicologiche del senso di col-pa che il proprio atteggiamento le fa provare. Tale sensazione l’ha portata a non de-nunciare lo stupro e ha fatto sì che, nonostante le lunghe sedute di psicoterapia, solo dopo molto tempo abbia iniziato a superare il trauma di quanto accaduto:

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La cosa strana è che io continuo a vergognarmi di me e non di loro. Non mi sconvolge quello che hanno fatto gli altri, mi sconvolge quello che ho fatto e quello che non ho fat-to io.

Perché non denunci? A me viene da ridere quando sento dire così. Sono tutti bravi a pa-role. Parlano dello stupro come una denuncia facile da fare. Qual è la prima cosa che fa una che ha subito violenza? Prende, da sola, e corre, e va dai carabinieri. E’ capitato ad altre, sono andate dai carabinieri, ma lo puoi fare se quelli non li conosci. Se non li co-nosci, l’hai subita e basta.

Quando ti capita che la violenza te la costruisci anche tu, quando interagisci con le persone che poi ti violano, quando ti capita di vivere con loro prima, è molto diverso. Quando ti capita che a violentarti è un tuo familiare, o un tuo amico, o tuo marito, è un’altra storia. Noi rimaniamo persone. E in quanto persone abbiamo l’istinto di prenderci la responsabili-tà di quanto accade. […] E’ un concetto del cazzo, ma la pensi così [Obber 2012: 28]. La vicenda di Veronica presenta anche molti altri aspetti estremamente dolorosi, come la reazione di alcune tra le persone a lei più vicine quando vengono a sapere dell’accaduto. Il fidanzato, al quale ne parla subito, ha la più sconvolgente delle rea-zioni che potrebbe avere in quel momento, ossia la accusa di essere corresponsabile di quanto accaduto, e poi addirittura, di lì a poco, incredibilmente le chiede anche di fare sesso, perché non accetta l’idea che la sua ‘ultima volta’ sia stata con un altro uomo... Ai genitori Veronica riuscirà a parlare solo dopo molto tempo, e in un primo momento il padre non crede al suo racconto, probabilmente (ipotizza la ragazza stes-sa) perchè lo stupro di una figlia è un peso talmente grande da sopportare che la sua psiche lo porta a non crederci, per evitare una sofferenza troppo atroce.

Più volte, parlando del dilagare della violenza di genere in Italia, abbiamo menzio-nato una forma mentis maschile che è residuo di un passato che ormai nel nostro Pae-se, quanto meno nella dimensione pubblica, è alle spalle. Nel mondo ci sono però mol-te aree in via di sviluppo dove purtroppo non ha ancora avuto luogo un rilevanmol-te processo di emancipazione femminile e in cui nella mentalità collettiva (e talvolta per-sino nelle leggi) non c’è molto spazio per il valore dell’uguaglianza di genere. Si po-trebbe dire che in tali realtà sopravvive nel presente e alla luce del sole quel rapporto tra i generi basato sulla sopraffazione che, in alcune aree più progredite del mondo, ha lasciato solo un preoccupante retaggio nel fondo più oscuro della mente maschile.

Siria mon amour è il racconto di una storia vera occorsa alcuni anni prima ad Amani El Nasif, conoscente di Obber e coautrice del libro. La ragazza, nata da genitori siriani, è cresciuta in Veneto e dunque sin dall’infanzia ha avuto la possibilità di respi-rare il clima progressista della sua terra di adozione, nel quale, nonostante le vedute conservatrici dei suoi genitori, si è sempre sentita perfettamente a suo agio.

All’età di sedici anni Amani vive come una normale ragazza veneta della sua età: ha un fidanzatino con cui ha rapporti sessuali, veste all’occidentale e ha anche trovato lavoro come commessa. Un giorno la madre la convince a compiere un breve viaggio nel piccolo villaggio siriano da cui la famiglia proviene. La donna dice che il soggior-no in Siria durerà solo pochi giorni. Per Amani è invece l’inizio di un vero e proprio incubo. Gradualmente, nonostante l’evasività della madre (il padre le raggiungerà solo in un secondo momento), comprende che in realtà è stata attirata in una vera trappola: la famiglia si è trasferita in Siria per restarci e Amani, minorenne, non avrà nessuna

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possibilità di ribellarsi, almeno fino a quando non raggiungerà la maggiore età (ossia ben due anni, come detto). Da subito la ragazza è obbligata a vestire da musulmana osservante, ossia velata e completamente coperta dalla testa ai piedi. Qualunque tra-sgressione alle rigide norme in materia di abbigliamento è punita con la violenza fisi-ca, in un clima di profondo fanatismo religioso:

Ero italiana, ero una ulech, una puttanella.

Nonostante il caldo, anche le pulizie di casa le dovevo fare con i tre vestiti e con i calzini o le scarpette, più insopportabili dei vestiti. Mi pareva impossibile che le mie cugine non si ribellassero a quelle regole, che erano tortura pura. Quando io chiedevo: «Ma non avete caldo? Ma perche non camminate scalze? Ma perché non vi tenete un solo vestito addosso?» esclamavano allarmate: «Haram, Haram!».

Haram significa peccato, e nel villaggio di Al Karatz il peccato per le donne sta nel solo

fatto di esistere, con i loro corpi, con la loro pelle profumata, con i loro sguardi. […]

Haram è quando stai cucinando da ore e hai talmente caldo che ti togli i calzini e rimani

a piedi nudi. «Metti i calzini!» ti dice tuo zio. «La porta è aperta! La gente passa, ti ve-de!» Haram sei tu che dici: «Fa caldo, tanto passano solo i parenti». Haram sei tu che ti impunti e i calzini non li metti. Allora lui srotola il berim, la corda che gli tiene sul ca-po la kefiah, e comincia a dartelo sui piedi, fino a farteli diventare viola. Haram sono quei piedi colpevoli, doloranti e gonfi, ai quali infili i calzini perché non ce la fai a pren-dere un’altra frustata. Haram è tutto, haram ero io, che non avevo fatto niente.

Reagivo, gridavo, mi ribellavo. Nessuno veniva in mia difesa, nessuno mi dava ragione. Nemmeno mia madre, nemmeno mia sorella. Mai [Obber, El Nasif 2013: 45-46].

Nella Siria rurale le donne sono una proprietà delle loro famiglie7, e tale rapporto

proprietario ha regole tacite ma ben precise. Alzare le mani su una ragazza nubile do-vrebbe essere compito di suo padre. Nel caso di Amani, data la temporanea assenza del genitore, è lo zio paterno a picchiarla ripetutamente ogni volta che lei ha atteggiamenti non in linea con quanto la famiglia si aspetta da lei (ossia, molto semplicemente, la to-tale sottomissione a regole ancestrali, frutto di subcultura e integralismo religioso).

E’ sufficiente che una ragazza si fidanzi che, già prima che il matrimonio abbia luogo, è il promesso sposo ad acquisire il diritto di picchiarla. Uno degli aspetti più drammatici del periodo trascorso da Amani in Siria è che la sua famiglia ha deciso che lei sposerà un suo cugino, da lei mai visto prima. Nessuno le chiede la sua opi-nione, giudicata come un dettaglio privo di significato. Addirittura, con la complicità della madre che le propone genericamente di partecipare a una festa, la ragazza è at-tirata con l’inganno alla cerimonia del suo fidanzamento ufficiale, senza la quale il legame non sarebbe socialmente riconosciuto.

Da quel momento è il suo promesso sposo a picchiarla ripetutamente e con grande violenza, cosa che accade con notevole frequenza, visto che Amani non ha la minima intenzione di sposarlo né di prestargli attenzione alcuna, semplicemente vive come se lui non esistesse, il che in tale ambiente è un affronto insopportabile. Un giorno,

aven-———————

7 E’ doveroso specificare che le autrici stesse precisano che, nelle zone urbane del paese e soprat-tutto nei quartieri cristiani di queste, l’atmosfera è ben diversa ed, entro certi limiti, le donne hanno spazi di libertà che nelle campagne sono purtroppo impensabili.

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dola vista mentre salutava con il sorriso un altro ragazzo, il fidanzato la picchia con ta-le viota-lenza da rendere necessario il suo ricovero in ospedata-le:

Sentivo il suo odio spaccarmi le ossa, poi, d’un tratto, più niente. Mi ha afferrato il collo con le mani, stringeva, mi ha sbattuto la testa sul muro ruvido. Sono caduta ai suoi piedi con lo sguardo stralunato e un rivolo di sangue che mi scendeva tra i capelli appiccicati al volto. Neief castigava Amani, la ragazzaccia venuta dall’occidente. Ho perso i sensi [Obber 2013: 87-88].

Naturalmente, per quanto arretrate possano essere le leggi di un paese, il tentato omicidio non può non essere considerato reato. Pertanto il ricovero della ragazza in ospedale è una situazione piuttosto rischiosa per il suo aggressore, che rischia conse-guenze legali piuttosto serie. Nulla di ciò accade, perché «– E’ caduta dalle scale –, hanno detto i miei» [Obber, El Nasif 2013: 88].

Le violenze contro Amani sono particolarmente frequenti poiché lei spesso si ri-bella a molte delle imposizioni, a partire dalla principale, quella di rimanere in Siria e non tornare più in Italia. Verso le altre donne del villaggio non è necessario usare così spesso la violenza fisica; è sufficiente la violenza psicologica rappresentata dal crescere in una realtà in cui sin dall’infanzia le bambine imparano ad essere servi-zievoli verso gli uomini della propria famiglia e considerano normale e naturale che un giorno si sposeranno (con un ragazzo scelto dai genitori) e trascorreranno la vita occupandosi della casa e prendendosi cura del marito e dei numerosi figli. Tutto ciò non è considerato come giusto o sbagliato, ma semplicemente come una sorta di legge di natura. Ribellarsi ad essa è impensabile, è come se si volesse alterare la successione delle stagioni o del giorno e della notte.

Dopo tredici mesi, l’incubo della ragazza termina all’improvviso, quando i suoi genitori decidono di far ritorno in Italia senza troppe spiegazioni. Probabilmente alla base della decisione sta l’aver toccato con mano quanto migliore sia il livello mate-riale della vita che la ricca Europa offre, ma anche l’essersi resi conto che, dato il ca-rattere ribelle delle figlie, la loro permanenza in Siria sarebbe stata una ragione di

scandalo permanente8.

I paesi arabi non sono certamente gli unici in cui il rapporto tra i due generi è ba-sato sulla sopraffazione e su una mentalità di tipo proprietario. Ciò accade in molte altre zone del cosiddetto ‘sud del mondo’, molto diverse dalla Siria su molti piani, a partire da quello religioso, ma in cui, come in Siria, il sottosviluppo si manifesta anche come sottomissione violenta delle donne.

Contrariamente a Siria mon amour, La ricompensa e Non lo faccio più, il romanzo

Amiche e ortiche non è un libro drammatico. E’ anzi la storia apparentemente leggera

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8 La sorella maggiore di Amani, che ha vissuto un’esperienza del tutto identica, approfittando del-la maggiore età ha agito in maniera ancor più ‘scandalosa’ secondo i parametri del vildel-laggio: per non essere picchiata finge consenso al matrimonio e si sposa davvero. Dopo di ciò ottiene dal marito il permesso di andare in Italia, promettendogli che appena arrivata avvierà le pratiche per il ricongiungimento familiare. Appena messo piede in Italia, la ragazza fa però ben altro: telefo-na al suocero e sprezzantemente lo informa che li ha presi in giro tutti, che ora è fitelefo-nalmente libe-ra e che non la vedlibe-ranno mai più.

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e scherzosa di un gruppo di amiche, le cui vicende sono alquanto diverse ma hanno come denominatore comune il fatto che esse frequentano il centro estetico Capricci di Cleopatra, diretto da Francesca, una delle componenti del gruppo. In realtà, al di là del tono scherzoso, il romanzo tocca alcuni tra i principali problemi che le donne contem-poranee si trovano a dover fronteggiare, dalla difficoltà a farsi strada nel mondo del lavoro al tentativo di tenere unita la famiglia di fronte all’adulterio del marito, fino a giungere al dramma della depressione, che colpisce le pazienti di sesso femminile in misura molto maggiore rispetto alla popolazione maschile.

Patrizia ha vissuto la tragedia della morte della sorella Margherita, uccisa prema-turamente da un cancro al seno. La Margherita che conosciamo attraverso il ricordo della sorella era una donna attiva e dinamica, che ha trascorso molti anni nei villaggi del Nicaragua, dove a lungo ha lavorato come volontaria. Uno dei problemi più

ter-ribili che affliggevano il Nicaragua rivoluzionario9, unitamente al sottosviluppo e

al-lo scandaal-loso tasso di povertà, era proprio la condizione femminile che, soprattutto nelle zone rurali, presentava caratteristiche non molto diverse da quelle che abbiamo conosciuto leggendo la vicenda di Amani El Nasif.

Anche nei villaggi nicaraguensi le ragazze crescono accettando come naturale la propria sottomissione, che ritengono un problema ampiamente secondario, poiché «se un figlio ti muore di dissenteria perché non hai di che curarlo e puoi nutrirlo solo con una brodaglia di fagioli, che il tuo uomo ti riempia di botte non ti sembra poi co-sì grave» [Obber 2008: 206].

La differenza tra Siria e Nicaragua è rappresentata proprio dalla

rivoluzione

sandinista, che ha iniziato un lungo e difficile lavoro di riforme sociali e di sensibi-lizzazione del popolo ai valori della giustizia sociale. Il personaggio letterario di Margherita è proprio ispirato ai tanti giovani stranieri che, animati da idee progressi-ste, hanno trascorso un periodo della propria vita nel paese centroamericano, per dare il proprio contributo a tale progetto. La ragazza era impegnata soprattutto nel difficile lavoro di sensibilizzazione delle donne nicaraguensi al tema dell’emancipazione femminile:

Ci vollero mesi e mesi, ma lentamente le due o tre donne che all’inizio vi partecipavano titubanti diventarono venti e poi trenta, fino a che non fu più la sola a sedersi nel centro della stanza: accanto a lei altre assunsero il suo stesso ruolo, raggiungendo consapevo-lezza e autonomia nel contrastato cammino verso l’emancipazione [Obber 2008: 206]. Parlando della violenza di genere in Italia abbiamo detto che, nella maggior parte dei casi, solo una lunga terapia con professionisti del settore consente di mutare le proprie vedute sui rapporti di genere a chi, avendo compiuto azioni violente, mostra di non essersi liberato da schemi mentali ormai fuori dal tempo. La rappresentazione che Obber fa della sottomissione della donna in Siria e Nicaragua ci dà invece

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9 La rivoluzione sandinista ha trionfato in Nicaragua nel 1979, quando il Fronte guidato da Daniel Ortega ha abbattuto la dittatura di Somoza e instaurato un governo di sinistra radicale, rimasto al potere fino al 1990. Dopo un lungo periodo di opposizione, i sandinisti hanno di nuovo vinto le elezioni nel 2006 e hanno governato il Paese ininterrottamente fino ad oggi, con notevoli in-dici di consenso popolare.

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l’impressione che, nelle parti del mondo in cui tuttora tali schemi mentali sono larga-mente dominanti, proprio il contatto con realtà diverse e più avanzate abbia un forte valore di presa di coscienza e di emancipazione. Per molti arabi può trattarsi dell’entrare in contatto con la cultura occidentale dei paesi in cui emigrano, per i

cam-pesinos centroamericani del prendere parte ad attività organizzate da volontari europei.

L’ultimo libro pubblicato da Obber è il romanzo L’altra parte di me, ispirato, come l’autrice stessa scrive nel frontespizio, dal tenero abbraccio che due studentes-se si sono scambiate nel corridoio dell’università, «davanti a un distributore di caf-fè». Il romanzo narra la storia di Francesca e Giulia, due ragazze molto giovani che, raggiunta l’età dei primi amori, si sono gradualmente rese conto del fatto di essere sentimentalmente interessate soltanto alle altre ragazze.

Quella di Francesca e Giulia è una storia a lieto fine: lentamente le famiglie ac-cetteranno la loro scelta affettiva e le metteranno anche nelle condizioni logistiche ed economiche di poter passare molto tempo insieme (le ragazze infatti, conosciutesi in Facebook, sono divise da più di mille chilometri, poiché vivono rispettivamente in Veneto e in Puglia). Prima che si giunga alla (parziale) accettazione di ciò però Francesca e Giulia, che fanno ben presto outing e rivendicano con grande naturalez-za il proprio diritto di vivere alla luce del sole la loro storia d’amore, sono costrette a subire delle pesanti vessazioni psicologiche, non solo da parte di estranei, ma an-che all’interno delle proprie famiglie.

In famiglia la violenza fisica non c’è quasi mai, ma quella psicologica è molto pesante. Per una giovane in età evolutiva è doloroso e mentalmente molto nocivo il rendersi conto che, per il semplice fatto di aver detto ai propri familiari di essere omosessuale, bisogna vedere un padre che scoppia in lacrime, sentire una madre che ipotizza che possa essere tutta colpa di una terapia ormonale fatta anni prima, aprire un sms e leggere «non sei più mia sorella» o rendersi conto che i nonni non la invi-tano più a trascorrere i periodi festivi nella loro casa, come erano soliti fare fino a quel momento.

Per una ragazza che ha bisogno dell’affetto dei genitori è molto duro constatare che, dopo aver saputo che la figlia è lesbica,

i suoi genitori non si sono soltanto arrabbiati, sono spariti, non li riconosce più, si sono chiusi a riccio in un dolore severo che le attribuisce ogni male e la fa sentire in colpa. Il silenzio di suo padre è quello che brucia di più. Era la sua preferita Francesca, gli stes-si suoi riccioli scomposti, una somiglianza fistes-sica e nelle attitudini che lo aveva sempre inorgoglito. […] Quest’anno lui si sente tradito e lei orfana. […] I suoi genitori si prepa-rano per uscire a cena con gli amici e a chi chiederà dove è Francesca ripeteranno che ha un brutto periodo per un ex ragazzo di cui non avranno voglia di raccontare niente [Obber 2014: 50].

Al di fuori della famiglia, la violenza psicologica è ben maggiore: quando a scuola si diffonde la notizia riguardante il loro orientamento sessuale, iniziano ad apparire scritte e disegni osceni, così come nelle loro pagine Facebook. Persino le amiche che apparentemente cercano di essere più comprensive, a volte tradiscono un fondo di omofobia con delle immancabili gaffe. Dopo l’ outing di Francesca, Eleonora ha con-servato un atteggiamento piuttosto amichevole. Quando organizza una piccola vacanza

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di alcuni giorni nella sua casa al mare, invita anche Francesca e Giulia senza nessun problema. Quando però le due ragazze si baciano in pubblico, Eleonora reagisce con grande irritazione e le sue parole fanno emergere i grandi limiti della sua apertura mentale verso l’omosessualità: «Mi conoscono tutti qui, io non voglio essere scambia-ta per una di voi!» [Obber 2014: 163].

In qualche caso poi le due ragazze sono oggetto di vere e proprie aggressioni verbali di tipo omofobo, la più grave delle quali si verifica mentre si stanno rilassando in spiaggia, ad occhi chiusi e teneramente abbracciate. Un uomo inizia ad insultarle in maniera molto plateale e volgare: «Il tizio ha in mano un cetriolo, lo agita sprezzante: – Che ne dite? Lo volete per stasera?» [Obber 2014: 166].

Uno dei risvolti più gravi di tale episodio è che, contrariamente a quanto ci aspetteremmo dato il notevole livello di volgarità e aggressività raggiunto dall’uomo, il piccolo gruppo di persone che si raduna per capire cosa stia succe-dendo sembrerebbe solidarizzare più con l’uomo che non con le due ragazze. La loro reazione oscilla tra l’indifferenza e il divertimento, ma non c’è nemmeno una persona che prenda apertamente le difese delle ragazze, come la semplice buona educazione avrebbe invece dovuto suggerire.

Come detto, quasi mai alla violenza psicologica si accompagna quella fisica. C’è però un’eccezione, che avviene proprio in famiglia. Siamo lontani migliaia di chilometri dalla Siria e dal Nicaragua, l’Italia è un paese molto progredito, le cui leggi puniscono duramente ogni forma di discriminazione sulla base del genere e dell’orientamento sessuale. Per giunta il Veneto è anche una delle zone del paese in cui la mentalità è più aperta e avanzata, ma quando Francesca, di fronte all’ennesimo pianto della madre dovuto al fatto di non accettare l’omosessualità della figlia, la informa che lei e Giulia si sono baciate, «lo schiaffo dura un istante infinito. Brucia» [Obber 2014: 78].

Poiché l’omofobia è una piaga che discrimina pesantemente gli omosessuali di ambedue i sessi, si potrebbe avere l’impressione che non esista una relazione diret-ta tra l’intolleranza verso le donne lesbiche e il tema della violenza e della sopraf-fazione di genere. In realtà negli ultimi decenni numerosi ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali, in particolar modo psicologi, hanno studiato in ma-niera molto dettagliata la relazione esistente tra le diverse forme di intolleranza e i ruoli di genere consolidatisi nella società tradizionale.

In quest’ultima alle donne erano attribuiti dei ruoli ben precisi, il principale dei quali era proprio quello di garantire con il proprio corpo la procreazione e di svol-gere, con premura e dedizione, il compito di mogli e madri. Nel 1995 Michael Stevenson e Barbara Medler hanno pubblicato sul Journal of men’s studies i risul-tati di un’indagine compiuta su alcune centinaia di studenti di ambedue i sessi, da cui emerge come tra coloro che avevano vedute tradizionaliste in materia di ruoli di genere erano particolarmente diffuse sia l’omofobia sia addirittura un atteggia-mento di minor condanna verso la violenza di genere all’interno della coppia [Ste-venson, Medler 1995].

Negli anni successivi, a risultati simili hanno condotto le ricerche di Nicole Ca-pezza e Nuray Sakalli. I contesti culturali in cui le due ricercatrici hanno condotto i loro studi sono molto diversi (Capezza negli Stati Uniti, Sakalli nell’ambiente ben

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più conservatore della Turchia) ma le conclusioni non cambiano di molto [Capezza 2007, Sakalli 2002].

Di particolare rilievo sono anche i risultati di una ricerca di gruppo condotta da alcuni studiosi statunitensi negli stessi anni e pubblicata nel 2006, da cui emerge con una chiarezza maggiore rispetto agli studi precedenti come tale connessione tra idee tradizionaliste sui ruoli di genere e omofobia sia molto più diffusa tra gli uomini e prenda di mira l’omosessualità femminile molto più che quella maschile [Ratcliff et alii 2006].

Esiste dunque una stretta relazione tra il grande stigma sociale che da sempre ha investito l’omosessualità femminile e il tema della violenza di genere. La donna le-sbica, in maniera più marcata nelle società meno evolute e più velata in quelle pro-gredite del nord del mondo, è dunque tendenzialmente vista come colei che, aspi-rando a una vita affettiva e sessuale ‘al femminile’ si sottrae a quei ruoli di genere che la società le impone. Ciò, soprattutto dalla parte maschile della società, non è considerato tollerabile. La radice della violenza omofoba contro le donne (psicolo-gica e spesso anche fisica) è dunque la stessa da cui scaturiscono le altre forme di violenza su cui abbiamo avuto modo di soffermarci in questo nostro perc di lettura delle opere di Cristina Obber.

Bibliografia

Capezza N.M., 2007, Homophobia and Sexism: The pros and cons to an integrative

approach, “Integrative Psychological and Behavioral Science”, no 41.

Muratore M.G., 2015, La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia, Istat, www.istat.it/it/archivio/161716 (26.10.2015).

Non lo faccio più [blog], http://nonlofacciopiu.net (26.10.2015).

Obber C., 2008, Amiche e ortiche, Milano. Obber C., 2011, La ricompensa, Milano. Obber C., 2012, Non lo faccio più, Milano.

Obber C., El Nasif A., 2013, Siria mon amour, Milano. Obber C., 2014, L’altra parte di me, Milano.

Ratcliff J.J. et alii, 2006, Gender differences in attitudes toward gay men and lesbians:

The role of motivation to respond without prejudice, “Personality and Social

Psychology Bulletin”, no 32.

Sakalli N., 2002, The relationship between sexism and attitudes toward homosexuality

in a sample of Turkish college students, “Journal of Homosexuality”, no 42

Stevenson M.R., Medler B.R., 1995, Is homophobia a weapon of sexism?, “Journal of Men’s Studies”, no 4.

Violenza sulle donne: ecco le cifre agghiaccianti, 2015, Redazione ANSA,

www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2014/11/19/femminicidi-ogni-due-giorni-viene-uccisa-una-donna_cc33c7e8-81c2-46fa-b1d6-f577eedfb727.html (26.10.2015).

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Summary

Non lo faccio più. The gender-based violence in the works of Cristina Obber Although Italy is one of the most developed countries of the world, several surveys point out that the gender-based violence and the femicide are becoming an increasingly serious problem in the country. According to many sociologists, this phenomenon comes from the survival, in the soul of many Italian men, of a very traditional view about the relationship between the two genders, based on inequality and oppression of women.

The article takes into exam the novels and essays of Cristina Obber, in which the writer represents many different forms of physical and psychological violence against women: the one committed by partners and the violence which stems from religious fa-naticism and homophobia.

Key words: gender-based violence, stalking, femicide, women’s emancipation, sociology

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