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Alcuni aspetti della humilitas nella "Commedia" di Dante

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Academic year: 2022

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Wacław Rapak, Jakub Kornhauser & Iwona Piechnik (éds), Kraków, Wyd. UJ, 2012

Maria Maślanka-Soro

Università Jagellonica di Cracovia

Alcuni aspetti della humilitas

nella Commedia di Dante

Uno dei temi particolarmente importanti nel poema dantesco è quello dell’umiltà, il che non dovrebbe sorprendere dato l’obiettivo principale della Commedia che consiste nella rappresentazione della realtà ultraterrena conformemente alla visione cristiana del mondo. Nella concezione della sal- vezza eterna, centrale per questa visione, l’umiltà occupa un posto signifi- cativo in quanto virtù che si oppone al vizio per eccellenza, quello della superbia. Secondo Tommaso d’Aquino e la teologia cristiana in genere, la quale trova il suo fondamentale punto di riferimento, come è risaputo, nella Bibbia, essa fu il primo peccato in assoluto1, causa della ribellione di Lucifero contro il Creatore. Dante fa suo il tale giudizio, quando, in un linguaggio altamente metaforico, ricorrendo all’immaginario popolare reso più consis- tente dal pensiero teologico sottostante, fa pronunciare nel cielo di Giove all’Aquila, simbolo della giustizia, formato dalle anime luminose dei beati2, le seguenti parole:

1 Cfr. Syr X, 13: „Initium omnis peccati superbia”; Tommaso d’Aquino, Summa Theolo- giae, IIa, IIae, q. 162, a. 7.

2 Cfr. D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di N. Sapegno, vol. III (Paradiso), Firenze 2011 (1955), p. 224: “L’Aquila […] è un simbolo vivente, un’idea incarnata, che si sostituisce ai personaggi concreti”.

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E ciò fa certo che ’l primo superbo, che fu la somma d’ogne creatura,

per non aspettar lume, cadde acerbo; (Paradiso, XIX, 46–48)3

Il senso della terzina, e in particolare dell’ultimo verso, si spiega se consi- deriamo il significato simbolico che qui e altrove Dante accorda al termine lume. Il suo equivalente latino, lumen, si riferisce all’effetto dell’espansione dei raggi dalla sua fonte, luce4 (lat. lux) che in Dante è legata all’idea di Dio, chiamato nella “definizione” pronunciata da Beatrice all’entrata sua e di Dante nell’Empireo, “luce intellettüal, piena d’amore”5. Precisamente, questa frase si riferisce all’Empireo stesso, ma esso si identifica con lo splendore della Mente divina6. Il lume, invece, corrisponde all’idea della Grazia.

Quindi il peccato dell’antico Serafino consistette nel suo rifiuto per orgoglio della luce della Grazia, nel ritenere di essere già perfetto (perfectus) – come Dio stesso – e non solo potenzialmente perfetto (perfectabilis). Perciò viene paragonato ad un frutto non ancora maturo, bensì acerbo.

L’idea di aprirsi alla Grazia è concepita dalla teologia cristiana come segno di umiltà che coincide con il raggiungimento di una particolare sapienza da parte dell’uomo, relativa alla conoscenza di se stesso. Lo confermano le parole di sant’Agostino:

Praecipitur tibi ut sis humilis, non tibi praecipitur ut ex homine sias pecus:

ille Deus factus est homo; tu, homo, cognosce quia es homo: tota humilitas tua, ut cognoscas te. Ergo quia humilitatem docet Deus, dixit: Non veni facere voluntatem meam, sed eius qui misit me. Haec enim commendatio humilitatis est. Superbia quippe facit voluntatem suam; humilitas facit voluntatem Dei.7

(Ti si raccomanda di essere umile, non di diventare persona bruta: Lui, Dio, diventò uomo; tu, uomo, riconosci di essere uomo: tutta la tua umiltà consiste nel riconoscere che sei uomo. Ora, visto che Dio insegna l’umiltà, Egli disse: non sono venuto di compiere la mia volontà, ma di quello che mi mandò. Questa è la raccomandazione di essere umile. I superbi fanno la propria volontà. Gli umili, invece, fanno la volontà di Dio)8.

3 Tutte le citazioni dalla Commedia di Dante nel presente articolo sono tratte dall’edi- zione: Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Milano 1966–1967.

4 Cfr. D. Alighieri, La Commedia, vol. III (Paradiso), a cura di B. Garavelli, con la supervisione di M. Corti, Sonzogno 1993, il commento al Paradiso, II, 79–84.

5 Idem, Paradiso, XXX, 40.

6 Cfr. ibidem, il commento al Paradiso, XXX, 34–45.

7 Sant’Agostino, In Evangelium Ioannis tractatus centum viginti quattuor, 25, 16. Cito dal www.augustinus.it (20.10.2011), Augustinus Hipponensis.

8 La traduzione è mia.

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Già gli antichi Greci avevano un lontano presentimento di questa verità, esprimendola tramite una sentenza o piuttosto due di cui l’una integra l’altra: “uomo, conosci te stesso” e “non fare nulla [che superi la condizione umana]”. Questo pensiero è presente in molte tragedie greche, specialmente in quelle di Eschilo. Chi non lo segue nella propria vita, si espone all’ira divina, in quanto colpevole di una hybris. Gli antichi non legano, però, la concezione della vita intenta ad evitare la hybris all’idea dell’umiltà intesa come una delle virtù. Anzi, per loro la humilitas non presenta affatto un atteggiamento virtuoso, ma quello da evitare, in quanto non degno di una persona libera, di una persona “per bene”, la quale ha come primo obbligo verso se stessa la cura del proprio onore. Perso questo, si è esposti ad un ostracismo, ad una “morte” sociale che può condurre non di rado ad una vera e propria morte fisica tramite il suicidio. Non è il caso di sviluppare qui questo argomento, del resto fondamentale per la concezione dell’uomo nella società greca e romana. Limitiamoci pertanto a ricorrere ad un esempio tratto dal genere tragico, strettamente legato alla dimensione antropologico- -filosofica della persona umana. Nella tragedia Aiace di Sofocle la trama si sviluppa intorno all’idea del riacquisto dell’onore (timē) perduto da parte del protagonista che si sente annientato come individuo. Prevede e quasi sente, nella sua psyche distrutta dalla disperazione, le risa dei Greci come reazione all’errore da lui commesso, di aver cioè preso, nell’accecamento mandato dalla dea Atena, il bestiame da preda per i suoi nemici. L’infamia imminente non gli lascia alternativa in una realtà in cui “il dovere di un valoroso”

è “o vivere gloriosamente o morire gloriosamente”9. Il suicidio diventa in questa insopportabile situazione l’unico modo di riscattare “post mortem” la stima perduta. La nobiltà del suicidio, il quale restituisce alla persona umana la sua dignità, crollata non di rado in seguito ad una prepotenza da parte del più forte, per esempio di un imperatore o di qualche suo confidente, viene confermata nella Roma antica dalla filosofia stoica. Si può quindi osservare che tutta l’antichità classica vede nella gloria postuma la via più sicura di continuare a “vivere” attraverso la memoria dei vivi.

Il cristianesimo rivoluziona questi concetti capovolgendo l’ordine morale e riconoscendo il valore dell’umiltà, il cui esempio estremo viene dato da Cristo che diventando l’Uomo poté espiare la colpa dell’uomo nel migliore dei modi, obbedendo – con la Passione e la Morte sulla croce – alla volontà del Padre fino alla fine: “Humiliavit semetipsum factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis”10.

9 Cfr. Sofocle, Aiace, 479–480. La citazione è tratta dall’edizione: Sofocle, Aiace-Tra- chinie, a cura di U. Albini, Milano 1991, p. 33.

10 Phil 2, 8. Cito da: Novum Testamentum Graece et Latine, London 1969, p. 503; cfr.

anche Dante, Paradiso, VII, 112 sgg. L’argomento relativo a vari aspetti della redenzione

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Se l’uomo antico non sa risolvere positivamente il problema presente nel concetto di rinunciare a se stesso per conseguire un bene per sé e/o per altri, nella dottrina cristiana una tale rinuncia corrisponde ad un arricchimento della persona umana che nel momento stesso in cui “cancella” consapevol- mente e di propria, libera volontà il suo “io”, apre uno spazio alla voce divina, quella dell’Altro che con il suo lumen costituisce la migliore guida dell’uomo tra i pericoli di questa vita nel condurlo a Sé, cioè all’eterna beatitudine.

Nella Commedia di Dante il tema indicato nel titolo di questo articolo coinvolge vari livelli del discorso poetico. Esso è presente nelle parti meta- letterarie delle tre cantiche, dove si riferisce a Dante come autore, ma anche in quelle diegetiche e in questo caso riguarda Dante pellegrino, protagonista del poema. Un gruppo a sé è costituito dagli exempla dell’umiltà, contrap- posti a quelli della superbia punita, rappresentati sotto forma di ekphrasis sulle terrazze del Purgatorio. Nella nostra analisi ci occuperemo dei primi due casi (ma con una preferenza data al primo), illustrandoli con alcuni episodi in cui questo tema viene affrontato dall’Alighieri in maniera diretta o indiretta, spesso attraverso un dialogo intertestuale con l’antichità classica e in piena adesione all’idea che il medioevo si fece di entrambi i concetti.

All’inizio del Canto II dell’Inferno Dante pellegrino, dopo aver accettato (verso la fine del Canto I) di seguire Virgilio nel cammino ultraterreno, vive un momento di dubbio se ne sia degno e contrappone se stesso ai suoi famosi precursori in questa eccezionale impresa, Enea e San Paolo11. Entrambi – e non solo quest’ultimo – vengono trattati come personaggi storici12 e il protagonista dell’Eneide è equiparato a San Paolo come depositario di una missione apostolica, in quanto padre del futuro impero romano, dove avverrà l’evento più importante per l’umanità – l’Incarnazione, la Morte e la Resurrezione di Cristo – e dove la Chiesa da Lui fondata avrà la sua sede principale. Nonostante il fatto che l’inizio del suo viaggio sia segnato dalla doppia negazione (“Io non Enëa, io non Paulo sono”, v. 32), sarà proprio lui ad essere destinato a diventare un nuovo Enea e un nuovo Paolo. Temendo di dimostrarsi “folle”, cioè superbo, Dante personaggio si espone, invece, all’accusa da parte di Virgilio di essere pronto a rinunciare vilmente ad una

operata da Cristo, affrontati da Dante nel suo “poema sacro”, ho trattato nella mono- grafia elettronica Il dramma della redenzione del mondo nella Divina Commedia” (cfr.

www.cra.phoenixfound.it [20.10.2011], Biblioteca Phoenix, 2007, n. 51).

11 Cfr. Dante, Inferno, II, 13–36. Questi versi sembrano racchiudere un’implicita oppo- sizione tra il descensus di Enea, cioè la sua katabasi descritta da Virgilio nel sesto libro dell’Eneide e l’ascensus di san Paolo, cioè la sua visione del cielo a cui l’Apostolo allude, senza pertanto scoprirne il contenuto, nella seconda Lettera ai Corinzi.

12 Cfr. E. Paratore, L’eredità classica in Dante, in Dante e Roma, Atti del Convegno di Studi, a cura della “Casa di Dante”, Milano 1965, p. 18.

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missione voluta in cielo13 per il bene suo e dell’intera umanità da lui rappre- sentata, come il lettore potrà capire da vari indizi sparsi nelle tre cantiche e che ha già capito dall’allegorismo del Canto I dell’Inferno. In che cosa consiste questo bene? Con la sua testimonianza egli aiuterà gli uomini a fuggire il peccato e ad avviarsi verso la strada che conduce alla beatitudine eterna. Lungi dal commettere il peccato di superbia, egli tutt’al contrario darà prova della propria umiltà nel significato chiarito da sant’Agostino, compiendo la volontà non sua, ma quella di Dio che intende salvare miseri- cordiosamente l’umanità smarritasi nella “selva del peccato”14. Inoltre, alla sua missione ben si addice la precisazione con cui Tommaso d’Aquino arricchisce l’idea agostiniana della humilitas cristiana nel seguente passo della Somma Teologica:

Tendere in aliqua maiora ex propriarum virium confidentia, humilitati contrariatur. Sed quod aliquis ex confidentia divini auxilii in maiora tendat, hoc non est contra humilitatem15.

(Tendere a grandi cose confidando solo nelle proprie forze significa essere contrario all’umiltà. Ma se qualcuno tende a grandi cose confidando nell’aiuto di Dio, ciò non si oppone all’umiltà).

Tommaso opera qui una riconciliazione tra l’umiltà cristiana e la virtù aristotelica chiamata megalopsychia16 (lat. magnanimitas), definita e ampia- mente spiegata teoricamente dallo Stagirita nell’Etica Nicomachea, ma già prima impersonata da vari eroi letterari nella poesia antica da Omero fino a Sofocle.

Nell’Inferno dantesco c’è una categoria di spiriti che in ragione della loro megalopsychia passata si erano preclusi la salvezza eterna. Troppo fiduciosi nel valore delle virtù morali ed intellettuali che praticarono durante la loro esistenza terrena, ora vivono nella zona illuminata e quindi privilegiata del primo cerchio, chiamato Limbo, e precisamente nel “nobile castello”, sim- bolo della loro sapienza. Tra questi “spiriti magni”17, “gente di molto valore”18 ci sono i personaggi famosi dell’antichità classica compreso Vir- gilio, l’attuale guida di Dante pellegrino nel suo viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio.

13 Cfr. Dante, Inferno, II, 43 sgg.

14 Cfr. l’apertura del poema: “Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura,/ ché la diritta via era smarrita” (Inferno, I, 1–3).

15 Summa Theologiae, IIa IIae, q. 161, a. 2. Cito dal www.corpusthomisticum.org/sth0000.html (20.10.2011).

16 Cfr. Aristotele, Ethica Nicomachea, IV, 3, 1123a 34 sgg.

17 Cfr. Dante, Inferno, IV, 119.

18 Cfr. ibidem, 44.

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L’accento nel Canto IV della prima cantica – la cui azione si svolge nel Limbo19 – cade significativamente sulla parla “onore” nelle sue varianti mor- fologiche e lessicali. Infatti la coltivazione delle dette virtù era stata ripagata da una eccezionale stima nel passato terreno che però nel mondo ultra- terreno si è rivelata del tutto inutile ai fini della salvezza20. Infatti loro conducono un’esistenza né triste né lieta e, soprattutto, sterile, esaltandosi reciprocamente e sperando inutilmente (“sanza frutto”)21 di appagare il desi- derio di contemplare Dio che avevano cercato di conoscere durante la vita con mezzi inadeguati, cioè unicamente con lo sforzo massimo dell’intelletto, come ammetterà Virgilio nel Canto III del Purgatorio. Egli vi critica l’atteggiamento degli antichi filosofi e poeti di fronte alle verità ultime, stabilendo, come credo, un implicito legame tra esso e quello di alcuni rappresentanti della Chiesa, i quali nella loro prepotenza conoscitiva si usurpano il diritto – tramite la scomunica con maledizione – di decidere della sorte oltremondana degli uomini (in questo caso del principe svevo Manfredi) senza ammetterne un possibile pentimento in fin di vita:

Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via, che tiene una sustanza in tre persone.

State contenti, umana gente, al quia; ché, se possuto aveste veder tutto,

mestier non era di parturir Maria; (Purgatorio, III, 34–39)

Proprio il chiudersi nel circolo vizioso della propria grandezza e, di con- seguenza, la mancanza della humilitas, non aveva permesso a loro, come cerca di suggerire Dante autore contrapponendogli, nel Canto IV dell’Inferno, l’esempio dei profeti e patriarchi ebrei, di aprirsi alla verità rivelata22. Così questi pagani virtuosi vivono post mortem pieni di onore, ma privi di grazia23.

Nel Limbo ha luogo un importante incontro di Dante pellegrino con cinque tra i più grandi poeti antichi al termine del quale egli viene incluso nella “bella scola”24 di Omero. Questa scena è stata interpretata anche nella

19 Sulla concezione del Limbo dantesco cfr. per esempio F. Forti, Il Limbo dantesco e i megalopsichoi dell’«Etica Nicomachea», “Giornale storico della letteratura italiana”, 1961, CXXXVIII, pp. 329–364; A.A. Iannucci, The Emptiness of Time, “Studi Danteschi”, 1978–

–1979, LII, pp. 69–128.

20 Cfr. anche il discorso dell’anima di Oderisi da Gubbio nel Purgatorio, XI, 91–108, sul valore e la caducità della gloria terrena.

21 Cfr. Dante, Purgatorio, III, 40.

22 Cfr. idem, Inferno, IV, 52 sgg.

23 Cfr. P.S. Hawkins, The Metamorphosis of Ovid, [in:] Dante and Ovid. Essays in Inter- textuality, Binghamton, New York 1991, p. 18.

24 Cfr. Dante, Inferno, IV, 94.

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prospettiva metaletteraria come un atto di autodefinizione poetica25: in realtà è Dante autore che all’inzio del suo “viaggio” letterario riconosce a se stesso il nome di poeta26, consapevole di essere quello che farà rinascere la grande epica, finora inesistente nell’epoca moderna. Le ultime parole del canto, oltre a presentare un significato letterale a livello diegetico (il prose- guimento del viaggio verso i cerchi più bassi), si possono leggere anche metaforicamente in riferimento all’iter poetico dell’Alighieri, convinto di essere non tanto continuatore e debitore dei poeti classici, quanto uno che indicherà la direzione nuova al genere epico, finora non provata da nessuno:

Per altra via mi mena il savio duca, fuor de la queta, ne l’aura che trema;

e vegno in parte ove non è che luca. (Inferno, IV, 149–151)

La via “non queta”, dove, come pare prevedere, non lo aspetteranno, almeno subito, splendori di una fama terrena, raggiunta senza sacrifici (“vegno in parte ove non è che luca”), fornirà la materia per la storia di una conversione cristiana di se stesso nel doppio ruolo di personaggio ed autore.

Le dichiarazioni della novità di questo viaggio poetico sono sparse in tutto il poema, ma qui vorremmo soffermarci solo sulle due più note, quella formu- lata nel Canto XXV dell’Inferno sotto forma di una sfida nei confronti di due rappresentanti della “bella scola” di Omero e quella che apre il Canto II del Paradiso rivolgendosi direttamente ai lettori.

Nella prima Dante autore fa tacere Lucano e Ovidio di fronte a ciò che sta per raccontare, stabilendo così una gara poetica che riguarda la concezione della metamorfosi. Lo fa in un canto in cui vengono descritte le tre trasfor- mazioni inerenti alla pena subita dalle anime dei ladri fraudolenti, le quali si susseguono nell’ordine di un crescente grado di difficoltà e di novità rappre- sentativa. Il passo in questione precede la minuziosa narrazione della terza metamorfosi che è doppia e consiste nello scambio reciproco della forma corporea27 tra uomini e serpenti che infestano la settima bolgia dell’ottavo cerchio, il luogo della pena eterna dei ladri:

25 Cfr. A.A. Iannucci, Dante e labella scoladella poesia (Inf. 4.64–105), [in:] Dante e la

bella scoladella poesia. Autorità e sfida poetica, a cura di A.A. Iannucci, Ravenna 1993, pp.

19–37.

26 È stato notato dalla critica che il termine poeta viene da Dante usato nella Commedia solo in riferimento agli autori classici e a se stesso (nel Paradiso, XXV, 8), e mai per chiamare i poeti medievali a lui contemporanei: cfr. T. Barolini, Dante’s Poets. Textuality and Truth in the Comedy”, Princeton 1984, p. 270.

27 Gli spiriti infernali, nonché quelli purgatoriali sono dotati di un corpo aereo il quale rimane sensibile agli stimoli che provengono dall’esterno, come caldo, freddo, dolore ecc. La

“teoria” della corporeità così concepita viene illustrata nel Purgatorio, XXV, 79–108.

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Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch’or si scocca.

Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio, ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo ’nvidio;

ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò sì ch’amendue le forme

a cambiar lor matera fosser pronte. (Inferno, XXV, 94–102)

Qui come altrove nell’Inferno dantesco la metamorfosi rimane in fun- zione del contrappasso che, oltre ad essere una rappresentazione letterale e simbolica della pena, rivela in vario modo la degradazione che subisce l’anima in seguito al peccato28. Riconoscendo la propria maestria artistica il poeta italiano vuole inoltre sottolineare che rispetto alle opere dei suoi pre- decessori classici29, in particolare quella di Ovidio, la sua si distingue per la verità delle mutazioni rappresentate, da lui viste e non inventate30, nonché per il fatto che esse, a differenza di quelle ovidiane, non provocano la per- dita della consapevolezza o dei sentimenti nell’essere umano, perché le due nature (uomo e serpente) mutano la loro materia (concepita aristotelica- mente), ma non se stesse. Come suggerisce Guido da Pisa, commentatore trecentesco della Commedia, il termine più adatto per le metamorfosi infernali sarebbe quello della transformatio supernaturalis, in quanto sono un’opera di Dio e contengono il giudizio che interpreta la vita passata dei dannati31. Dante autore qui (e altrove) si sente soltanto un umile scriba Dei, come afferma o esplicitamente – “quella materia ond’io son fatto scriba”32 – o tramite una metafora perifrastica – “’l poema sacro,/ al quale ha posto mano e cielo e terra”33. Nonostante lo possa suggerire un tono aspro e per- fino sprezzante nei confronti dei poeti antichi nella citazione sopra ripor- tata, non si tratta da parte sua di un atteggiamento superbo.

28 Cfr. B. Guthmüller, ‘Transformatio moralis’ e ‘transformatio supernaturalisnella

«Commedia» di Dante, [in:] Il pensiero filosofico e teologico di Dante Alighieri, a cura di A. Ghisalberti, Milano 2001, p. 69.

29 Cfr. Ovidio, Metamorfosi, V, 572–641; Lucano, Farsaglia, IX, 761–804.

30 Cfr. l’espressione metaletteraria che precede la seconda delle tre metamorfosi rappre- sentate in questo canto: “Se tu se’ or, lettore, a creder lento,/ ciò ch’io dirò, non sarà mara- viglia,/ ché io che ’l vidi, a pena mi consento” (Inferno, XXV, 46–48).

31 Cfr. B. Guthmüller, op.cit., p. 76.

32 Dante, Paradiso, X, 27.

33Ibidem, XXV, 1–2.

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La seconda delle due dichiarazioni presenta un appello ai lettori e afferma la novità del “viaggio” poetico atraverso “il mare non notum”34, che riguarda a questo punto la sua parte più difficile, la “navigazione” sulle “acque” celesti del Paradiso, la quale richiede talento, capacità artistiche (linguistico- retoriche) ed ispirazione assolutamente unici:

O voi che siete in piccioletta barca, desiderosi d’ascoltar, seguíti

dietro al mio legno che cantando varca, tornate a riveder li vostri liti;

non vi mettete in pelago, ché, forse, perdendo me, rimarreste smarriti.

L’acqua ch’io prendo già mai non si corse:35 Minerva spira, e conducemi Apollo, e nove Muse mi dimostran l’Orse.

Voi altri pochi, che drizzaste il collo per tempo al pan de li angeli, del quale vivesi qui ma non sen ven satollo, metter potete ben per l’alto sale vostro navigio, servando mio solco

dinanzi a l’acqua che ritorna equale. (Paradiso, I, 1–15)

Nel fare una profonda distinzione tra i lettori “sprovveduti”, cioè quelli che con la sola ragione intendono a comprendere dei misteri più alti e ris- chiano di terminare la loro impresa con “un naufragio”, come l’Ulisse dan- tesco a cui assomigliano36, e tra quelli che possiedono un “nutrimento” ade- guato, costitutito dalla scienza divina unita alla fede, Dante si dimostra un autore esigente che non ha da dare un messaggio facilmente comprensibile a tutti. Convinto inoltre della novità della sua opera maggiore, sembra man- care della humilitas, necessaria a chi sta per trasmettere delle verità cris- tiane.

Tale impressione è destinata, però, a dileguarsi se si osserva che il pro- emio di questo canto non può essere letto prescindendo dalla precedente dichiarazione di poetica, la prima che compare nella terza cantica. Si tratta

34 Questa espressione ovidiana è tratta da M. Picone, Canto II, [in:] Lectura Dantis Turi- censis, vol. III (Paradiso), Firenze 2002, p. 44.

35 Il corsivo è mio per sottolineare la consapevolezza dantesca della novità della sua poesia.

36 L’accostamento con Ulisse, protagonista del Canto XXVI dell’Inferno, è qui indiretto. Il richiamo diretto, invece, nei versi che seguono (16–18), riguarda il mito degli Argonauti che, come quasi tutti i miti ovidiani nella Divina Commedia (compreso quello di Ulisse, cono- sciuto da Dante soprattutto dalle Metamorfosi ovidiane), viene dall’autore “corretto” e costi- tuisce il punto di partenza per creare il mito cristiano di Dante argonauta: cfr. M. Picone, Dante argonauta. La ricezione dei miti ovidiani nella Commedia”, [in:] M. Picone, B. Zim- mermann, Ovidius redivivus. Von Ovid zu Dante, Stuttgart 1994, pp. 197 sgg.

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della nota invocazione ad Apollo che allude, tra l’altro, al mito ovidiano del satiro Marsia37:

O buon Apollo, a l’ultimo lavoro fammi del tuo valor sí fatto vaso [...]

Entra nel petto mio, e spira tue sí come quando Marsia traesti

de la vagina de le membra sue. (Paradiso, I, 13–14; 19–21).

Il mito ovidiano che fa vedere la divinità come particolarmente crudele, viene da Dante rielaborato nel senso cristiano che coinvolge la divina ispira- zione, già altrove, come abbiamo visto, indicata come fonte importante del suo poema. L’autore chiede qui a Dio di essere svuotato, liberato dai propri limiti umani per diventare “vaso” nel quale possa soffiare l’ispirazione divina. Lui si oppone qui a Marsia che voleva superare Apollo (il quale nel

“mito” cristiano di Dante simboleggia Dio cristiano) e perciò è stato punito.

Nella citata invocazione il satiro è oggetto della critica dantesca e si presenta come figura negativa di Dante autore, il quale diventa un nuovo Marsia38: invece di sfidare superbamente Dio gli chiede umilmente (ed ottiene, come provano le sue parole relative al “poema sacro” che aprono il canto XXV del Paradiso) la grazia dell’ispirazione.

In questa breve analisi della humilitas nella Commedia svolta soprattutto in riferimento alla figura dell’autore, speriamo di aver illustrato convincen- temente che la concezione medievale di questa virtù trova nell’Alighieri la sua piena conferma, nonché la sua giustificazione.

Summary Summary Summary Summary

Chosen Aspects of the humilitas in the Dante’s Comedy

The humilitas motif is one of the most important themes of the Dante’s Comedy. It should not seem strange if we consider the vision of the world presented in this work, according to which humilitas, a Christian virtue par excellence is the opposite of pride (superbia) that constitutes the source of all evil for Thomas Aquinas and other medieval theologians who refer to the Bible. For Dante, a well-known thought of St. Augustine, represents the essence of this virtue: according to it, “humilitas facit voluntatem Dei”

and proves the will of man to open himself to God’s grace. It’s worth to mention that in the ancient times there was no place for humility seen in a positive way; it was at most suitable for a slave and it caused contempt. In Dante’s Comedy the humilitas motif is present in each of the three parts of the “sacred poem” (“poema sacro”) and on different levels of the poetic discourse – the metaliterary one, that refers to Dante-author, and the

37 Cfr. Ovidio, Metamorfosi, VI, 383–391.

38 Cfr. G. Ledda, Dante, Bologna 2008, p. 116.

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diegetic one of Dante-character. The article analyses both aspects of the term and demonstrates that the humilitas motif appears frequently in the context of polemic with the Ancient culture (admired by Dante, though) that sometimes takes the form of intertextual references “correcting” the Ovid’s myths.

Key Key Key Keywordswordswordswords

Dante, humilitas, superbia, ancient culture, intertextual discourse.



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