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L'ermeneutica delle epidemie nel pensiero cristiano e l'idea del Dio punitore

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Academic year: 2022

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Received 28 June 2020, Revised 8 September 2020, Accepted 9 September 2020, Available online 10 September 2020

Orbis Idearum, Volume 8, Issue 1 (2020), Pages 41-67 ISSN: 2353-3900

L’ERMENEUTICA DELLE EPIDEMIE NEL PENSIERO CRISTIANO E L’IDEA DEL DIO PUNITORE

Roberto Paura

Italian Institute for the Future r.paura@libero.it

ABSTRACT

Among the contradictory conceptions of Christianity, the punishing God vs. the merciful God is likely the most radical one. Throughout two thousand years of Christian history, the idea of the punishing God whose wrath against human sins is aimed at punishing them through certain scourges has been used to explain natural disasters such as epidemics. This has fostered the emergence of a “pastoral of fear”

supported by the traditional themes of Christian eschatology and the insistence on the eternal punishments of hell. The paper aims to analyze the historical evolution of this idea through some representative historical moments, like the plague pandemics in the 6th-8th-, the 14th- and the 17th-centuries. Since the debate on the punishing God has enjoyed new relevance during the Covid-19 pandemic, the conclusions try to ex- plain the reasons for the continuing success of this idea, even in a changed socio- cultural context.

1.INTRODUZIONE

Come qualsiasi tipo di calamità naturale imprevista e in grado di generare tragedie di ampia portata, epidemie e pandemie promuovono in ogni epoca riflessioni sull’origine del male, tema che in ambito teologico è definito teo- dicea. Più precisamente, il pensiero religioso si ritrova ciclicamente a inter- rogarsi sull’idea che il male sia una punizione divina per i peccati dell’essere umano – se il male tocca una singola persona – o di una parte se non persino della totalità dell’umanità, se il male colpisce in modo generalizzato.

Nell’ambito del cristianesimo, questo dibattito si ritrova, più che all’interno della teologia (che cerca di operare una riflessione sistematica e rigorosa dei problemi della fede), all’interno del discorso pubblico, che qui definiremo “religione popolare”: in passato, omelie e sermoni erano i mezzi

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con cui la Chiesa promuoveva un’ermeneutica improntata alla stretta rela- zione tra peccato e castigo, insieme a libelli, pamphlet, testi popolari, pre- ghiere d’intercessione, litanie e rogazioni.

La pandemia di Covid-19 ha dimostrato che il problema è ancora sentito e attuale nel pensiero cristiano. Da un lato, esponenti di gruppi fondamenta- listi del neopentecostalismo e in generale dell’evangelismo protestante, spe- cialmente negli Stati Uniti, ma anche di gruppi tradizionalisti del cattolice- simo romano, hanno rilanciato attraverso i social network, il web e la

“blogosfera” la tradizionale visione che correla la pandemia a una punizione per i peccati degli uomini, specialmente in materia di morale1. Dall’altro, esponenti più riformisti, tanto del protestantesimo che del cattolicesimo, hanno cercato al contrario di contrastare questa vulgata, respingendo l’idea del Dio vendicatore che scatena la sua ira sull’umanità peccatrice come non appartenente al nucleo di fede del cristianesimo.

Per limitarsi a un unico esempio, nell’omelia pronunciata durante la cele- brazione del Venerdì Santo 2020 al Vaticano, in piena pandemia di Covid- 19, il predicatore della Casa Pontificia, Raniero Cantalamessa, ha esplicitato il pensiero magisteriale dell’attuale pontificato:

Non è Dio che con il coronavirus ha scaraventato il pennello sull’affresco della nostra orgogliosa civiltà tecnologica. Dio è alleato nostro, non del vi- rus! «Io ho progetti di pace, non di afflizione», dice nella Bibbia (Geremia 29,11). Se questi flagelli fossero castighi di Dio, non si spiegherebbe perché essi colpiscono ugualmente buoni e cattivi, e perché, di solito, sono i poveri a portarne le conseguenze maggiori. Sono forse essi più peccatori degli altri?

[…] Forse che Dio Padre ha voluto lui la morte del suo Figlio sulla croce, a fine di ricavarne del bene? No, ha semplicemente permesso che la libertà umana facesse il suo corso, facendola però servire al suo piano, non a quello degli uomini. Questo vale anche per i mali naturali, terremoti ed epidemie.

Non le suscita lui. Egli ha dato anche alla natura una sorta di libertà, qualita- tivamente diversa, certo, da quella morale dell’uomo, ma pur sempre una forma di libertà.2

Di fronte a queste dichiarazioni, il fronte tradizionalista risponde soste- nendo che si tratti di deviazioni rispetto al depositum fidei costituito dalla Bibbia e – per i cattolici – dall’insieme della tradizione apostolica ed eccle- siastica3. Se però sottoponiamo a un’analisi storica l’idea del Dio punitore,

1 Cfr. A. Nicolotti, Cattolicesimo ed epidemie: teologia, storia e attualità, <amicidipassatoe- presente.wordpress.com>, 28 maggio 2020; R. Paura, Madonne, telepredicatori, profeti: tutti pazzi per il coronavirus, «Query», 31 marzo 2020.

2 R. Cantalamessa, Io ho progetti di pace, non di afflizione, Predica del Venerdì Santo 2020 nella Basilica di San Pietro, 10 aprile 2020. http://www.cantalamessa.org/?p=3883.

3 Cfr. L. Joffrin, Dieu et le virus, «Libération», 3 aprile 2020.

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provando a ricostruirne l’evoluzione in particolare durante le crisi epidemi- che e pandemiche che si sono succedute nella storia, scopriamo che questa contrapposizione tra due diverse pastorali, che possiamo definire con Jean Delumeau la “pastorale della paura” e la “pastorale della misericordia”4, si rintraccia fin quasi all’origine del pensiero cristiano e ha prodotto, nel corso dei secoli, diversi originali tentativi per conciliare idee tra loro radicalmente diverse. Come ha osservato Diarmaid MacCulloch, il messaggio cristiano è ricco di palesi contraddizioni, contrapposizioni e polarizzazioni, ma tra que- ste la più radicale è certamente la «duplice affermazione della maestà di Dio in quanto giudice, da una parte, e dell’amorosa misericordia di Dio padre, dall’altra»5.

Obiettivo di questo saggio è analizzare l’idea del Dio punitore come unit- idea secondo la definizione di Arthur Lovejoy6, ricostruendone succintamen- te l’evoluzione focalizzando l’analisi su quei momenti di crisi sociale e cul- turale rappresentati dalle epidemie (soprattutto di peste), in cui il rafforza- mento o la messa in discussione di quest’idea diventano più evidenti. Al termine, si tenterà di avanzare una possibile interpretazione delle ragioni che hanno favorito il successo di questa idea nella religione popolare fino a tem- pi recenti e perché essa ritorni periodicamente in auge, da parte – in epoca contemporanea – di gruppi religiosi di area letteralista e fondamentalista.

2. “REX TREMENDAE MAIESTATIS”: DALLA BIBBIA ALLA PESTE DI

GIUSTINIANO

La Bibbia contiene al suo interno diversi riferimenti espliciti al fatto che le epidemie e in generale le calamità naturali siano volute da Dio per punire, a seconda delle situazioni, il suo popolo eletto (gli Ebrei) o i nemici del popolo ebraico. Ben noti sono anche i due episodi del libro della Genesi che narra- no, rispettivamente, del Diluvio universale col quale Dio annuncia che man- derà il diluvio «per distruggere sotto il cielo ogni carne, in cui è alito di vi- ta»7, e della distruzione delle città di Sodoma e Gomorra in cui si legge esplicitamente che «il Signore fece piovere dal cielo sopra Sòdoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco proveniente dal Signore» (una ripetizione che serve a sottolineare che la distruzione è voluta e operata direttamente da Dio)8.

4 J. Delumeau, Il peccato e la paura, il Mulino, Bologna 2006.

5 D. MacCulloch, Riforma. La divisione della casa comune europea, Carocci, Roma 2017, p.

166.

6 A. O. Lovejoy, The Great Chain of Being. A Study of the History of an Idea, Harvard Uni- versity Press, Cambridge (MA) 1936.

7 Genesi 6,17.

8 Genesi 19,24. Una nuova interpretazione dell’episodio di Sodoma e Gomorra è stata offerta

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Nel Levitico Dio mette in guardia il suo popolo sulle conseguenze del mancato rispetto dalle Legge e del patto sancito con Abramo e con Mosè: in tal caso, si legge, tra le molte punizioni («terrore, consunzione e febbre»,

«fiere della campagna» che «rapiranno i vostri figli, stermineranno i vostri figli» ecc.): «E farò venire contro di voi la spada che eseguirà la vendetta del mio patto; voi vi raccoglierete nelle vostre città, ma io manderò in mezzo a voi la peste e sarete dati in mano al nemico»9. Nel libro dei Numeri, il Signo- re dice a Mosè: «Fino a quando mi disprezzerà questo popolo? E fino a quando non avranno fede in me, dopo tutti i miracoli che ho fatto in mezzo a loro? Io lo colpirò con la peste e lo distruggerò»10. Nel Deuteronomio, nuo- vamente il popolo ebraico viene messo in guardia: «Ma se tu non obbedirai alla voce del Signore tuo Dio, se non cercherai di eseguire tutti i suoi co- mandi e tutte le sue leggi che oggi io ti prescrivo, verranno su di te e ti rag- giungeranno tutte queste maledizioni (…). Il Signore ti farà attaccare la pe- ste, finché essa non ti abbia eliminato dal paese, di cui stai per entrare a prendere possesso»11.

Queste minacce non restano tali. Nel secondo libro di Samuele e nel pri- mo libro delle Cronache si racconta che, per punire il re Davide che si è al- lontanato dalla grazia di Dio e ha traviato il popolo di Israele, Dio manda un’epidemia di peste che uccide settantamila israeliti12. Nel libro di Ezechie- le, il furore del Signore è incontenibile, a causa della perdizione di Israele:

tra i castighi promessi («i padri divoreranno i figli e i figli divoreranno i pa- dri», «raderò tutto», «ti ridurrò a un deserto») figura anche la peste, che uc- ciderà un terzo degli ebrei di morte diretta e un altro terzo per le conseguen- ze della carestia13. Sempre in Ezechiele, la peste è insieme alla spada (cioè alle guerre), alla fame e alle bestie feroci uno dei «quattro tremendi castighi»

di Dio14. Tuttavia, nel libro del profeta Osea, Dio annuncia di non voler pu- nire con la propria ira il suo popolo, nonostante esso abbia infranto l’antica alleanza, così spiegando la sua decisione: «Poiché sono Dio e non un uomo;

sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira»15. Walter Kasper ha osservato, a partire da questo passo, che «già nell’Antico Testamento Dio non è il Dio dell’ira e della giustizia, ma il Dio della misericordia», e che la qualità della sua essenza, che lo distingue completamente dagli uomini, è

dal documento della Pontificia Commissione Biblica Che cosa è l’uomo? Un itinerario di an- tropologia biblica, 2019.

9 Levitico 26,25.

10 Numeri 14,11-12.

11 Deuteronomio 28,15-21.

12 L’episodio è narrato in 2 Samuele 24 e in 1 Cronache 21.

13 Ezechiele 5.

14 Ezechiele 14,21.

15 Osea 11,9.

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proprio l’assenza di un’intenzione vendicativa e la vastità della sua miseri- cordia16.

Ma l’idea del Dio punitore ritorna intatta secoli dopo nell’Apocalisse di Giovanni, dove ai quattro cavalieri dell’apocalisse viene dato «potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la pe- ste e con le fiere della terra»17. Con l’Apocalisse, così come con i discorsi escatologici che i Vangeli sinottici attribuiscono alla predicazione di Gesù, il castigo divino si collega al tema del giudizio finale. L’epidemia, dunque, rappresenta, insieme alle carestie e alle guerre, il segno precursore della

“grande tribolazione”.

Centrale per tutti i primi secoli del cristianesimo, il tema escatologico perse tuttavia gradualmente rilevanza, in parte per l’imbarazzo che creava l’insistenza in una parusia imminente continuamente rinviata (evidente già nella Seconda lettera ai Tessalonicesi di san Paolo), in parte per la minaccia eversiva rappresentata dalle sette escatologiche al desiderio del cristianesimo di istituzionalizzarsi (un esempio fu il montanismo, che elesse la perduta cit- tà di Prepuza, in Frigia, “nuova Gerusalemme”, finché i resti del movimento e la stessa città non furono distrutti dal vescovo Giovanni da Efeso sotto l’impero di Giustiniano). Nel 431 il Concilio di Efeso condannò le credenze millenariste ed epurò dalla dottrina cristiana la convinzione in un imminente giudizio finale; ma questa convinzione «persistette nell’oscuro mondo sotter- raneo della religione popolare»18 e ritornò ciclicamente ogni qualvolta l’ordine sociale sembrò minacciato da calamità considerabili possibili pre- cursori dell’Apocalisse.

Esempio paradigmatico fu la peste di Giustiniano, che sconvolse Costan- tinopoli tra il 541 e il 542 e si diffuse successivamente in tutta Europa, per poi ritornare a ondate fino al 750 circa. In base alla credenza secondo cui il mondo sarebbe durato seimila anni, alcuni esegeti di allora avevano fissato l’inizio della grande tribolazione tra il 492 e il 508. Intorno a quell’epoca, e per tutto il VI secolo, i cronachisti non si lasciarono sfuggire neanche la più piccola notizia di terremoti, calamità, distruzioni, guerre ed epidemie che giungesse alle loro orecchie, proprio perché potevano rappresentare precur- sori dell’imminente giudizio finale. Nel settembre 541, all’apice della peste, a Costantinopoli ottenne per esempio breve popolarità una donna che andava predicando che entro tre giorni il mare si sarebbe sollevato inondando tutta la terra19.

16W. Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo - Chiave della vita cristiana, Querinana, Brescia, 2013, p. 82.

17 Apocalisse 6, 8.

18 N. Cohn, I fanatici dell’Apocalisse, Pgreco, Roma 2014, p. 35.

19 D. Stathakopoulos, Crime and Punishment: The Plague in the Byzantine Empire, 541-749, in L.K. Little (ed.), Plague and the End of Antiquity: The Pandemic of 541-750, Cambridge

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Durante la pandemia, nessuno dei teologi cristiani dell’epoca mise in questione l’ipotesi che la peste rappresentasse un castigo mandato da Dio, anche se si discuteva su quale fosse la causa della collera divina. Dopotutto, da relativamente poco tempo il cristianesimo era diventato religione di stato in tutto l’antico mondo romano, sancendo una definitiva vittoria sul pagane- simo. Giustiniano era inoltre considerato dai contemporanei un imperatore retto e giusto, per cui difficilmente si poteva sostenere che fosse il suo regno la causa dell’ira distruttiva di Dio. Procopio di Cesarea dovette constatare, nel De bellis, che la pestilenza uccideva gli uomini migliori «lasciando in- denni proprio gli uomini peggiori»20. Anzi, una delle prime vittime della pandemia a Roma fu proprio papa Pelagio II. A succedergli fu papa Grego- rio, passato alla storia come Gregorio Magno, il quale nel suo primo sermo- ne da pontefice non si sottrasse dal definire la peste una punizione divina, chiedendo ai fedeli di pentirsi e confessare i propri peccati prima che la mor- te, sorprendendoli all’improvviso, impedisse loro di morire in stato di gra- zia21.

Gregorio mise in campo un imponente apparato di ritualità per il penti- mento collettivo, la cui origine deriva probabilmente dalle rogazioni istituite dal vescovo di Vienna in seguito ai terremoti che avevano colpito la valle del Rodano intorno al 47022. Le rogazioni consistevano in atti di penitenza pub- blici introdotti da tre giorni di digiuno (un’idea che proveniva dal libro di Giona, in cui è descritto il digiuno con cui gli abitanti di Ninive furono ri- sparmiati dall’ira distruttiva di Dio), seguiti poi da processioni, canti di salmi e preghiere d’intercessione. Anche se nelle cronache di Giovanni da Efeso, testimone diretto della peste che colpì Costantinopoli e la Siria (da cui pro- veniva), non sono presenti testimonianze di questa tipologia di atti peniten- ziali, e anzi si racconta di una città tra l’Egitto e la Palestina che ne approfit- tò per ritornare al culto degli antichi dèi per ottenere la fine della pestilenza23, le rogazioni divennero ben presto popolari in tutto l’Occidente:

se ne trovano per esempio attestazioni durante l’epidemia di peste nella lon- tana Mesopotamia nel 573, dirette dai patriarchi nestoriani24.

Nella religione popolare di questo periodo, i richiami agli episodi biblici sono numerosi. Il più celebre è raccontato dalla Leggenda Aurea (scritta alla fine del XIII secolo): durante una delle processioni che papa Gregorio guidò a Roma per chiedere perdono a Dio e ottenere la fine della pestilenza, egli

University Press, New York 2007, p. 109.

20 Procopio di Cesarea, De bellis, II, 23,16; tr. it. di F.M. Pontani, Res Gestae, Roma 2017.

21 L.K. Little, Life and Afterlife of the First Plague Pandemic, in L.K. Little, op. cit., p. 11.

22 Ivi, p. 26.

23 M.G. Morony, ‘For Whom Does the Writer Write?’: The First Bubonic Plague Pandemic According to Syriac Sources, in L.K. Little, op. cit., p. 81.

24 L.K. Little, op cit., p. 26.

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avrebbe visto l’arcangelo Gabriele, apparso in cima all’antico Mausoleo di Adriano (poi ribattezzato, per l’appunto, Castel Sant’Angelo), rinfoderare la spada sanguinante: scena presa direttamente dall’episodio biblico in cui Da- vide vede l’angelo del Signore, prossimo a distruggere Gerusalemme, ri- chiamato da Dio a rinfoderare la sua spada in seguito al pentimento del re.

Giovanni da Efeso, nelle sue cronache della peste, fu forse il primo a usare l’immagine di Dio che pressa gli uomini peccatori nel torchio, da cui sgor- gano fiumi di sangue: motivo proveniente dall’Apocalisse di Giovanni, an- che se non è da escludere che la visione dei mucchi di cadaveri seppelliti nelle fosse comuni a Costantinopoli abbia favorito il paragone25.

Questi collegamenti con il dettato biblico, insieme al grande successo che le penitenze pubbliche ottennero a partire dalle peste di Giustiano, dimostra- no quanto facilmente si affermò nel pensiero cristiano l’idea del Dio punito- re. Scrive Jean Delumeau:

Nella predicazione dei tempi andati la fine del mondo e il Giudizio univer- sale erano spesso presentati come la suprema «vendetta» dell’Onnipotente contro una terra e contro un’umanità ostinatamente dedite al peccato (…). Il cataclisma finale viene dunque presentato come una punizione che, del re- sto, doveva essere preceduta da calamità gravi, ma meno clamorose, che il cielo fa piovere periodicamente su una terra riottosa. L’antica idea che Dio punisce fin da questa vita terrena e che le grandi sventure collettive sono ad un tempo un castigo e un monito fu sempre ricorrente, anche in età classica, nella predicazione. Era una idea che faceva parte dell’armamentario mentale della Chiesa docens e docibilis.26

Tra le 118 omelie analizzate da Michael Kulikowski e risalenti all’epoca dell’epidemia che colpì la Spagna alla fine del VII secolo, quattro sermoni in particolare, pronunciati nella città di Toledo, trattano delle cause della peste e la collegano senza alcun dubbio al castigo di Dio. I sermoni sollecitano la popolazione al pentimento e al rinnovamento dei cuori, come unico modo per allontanare la pestilenza e placare l’ira divina27. Nel 726, in risposta a una lettera del monaco anglosassone san Bonifacio, in cui si chiedeva se, nell’evenienza di un focolaio di peste scoppiato in una chiesa o in un mona- stero, fosse consentito ai chierici di abbandonare la struttura, papa Gregorio II rigettò l’idea come «follia», sancendo che «nessuno può sfuggire alla ma- no di Dio»28.

25 W. Rosen, Justinian’s Flea: Plague, Empire, and the Birth of Europe, Viking, Londra 2007, p. 223.

26 J. Delumeau, Il peccato e la paura, cit., p. 726.

27 M. Kulikowski, Plague in Spanish Late Antiquity, in L.K. Little, op. cit., pp. 150-170.

28 L.K. Little, op. cit., p. 27.

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3.“MEMENTO MORI”: TRA PESTE NERA E MILLENARISMO

La seconda e più celebre pandemia di peste in Europa infierì, com’è noto, nella metà del XIV secolo. Per l’enorme numero di vittime – cronachisti dell’epoca e storici moderni sono abbastanza concordi nella stima di circa un terzo della popolazione europea deceduta – e per la virulenza del morbo, è passata alla storia con il nome di peste nera o morte nera.

La cristianità si trovò ad affrontare la terribile pandemia in un contesto profondamente mutato rispetto a quello dell’epoca di Giustiniano. I sogni di rifondazione dell’Impero romano erano da tempo tramontati e iniziavano a sorgere gli Stati nazionali, in particolare la Francia, che era riuscita a ridi- mensionare lo strapotere temporale dei papi trasferendo la sede pontificia da Roma ad Avignone. Dalla fine del secolo precedente, il cristianesimo era sta- to scosso dall’avvento di nuovi movimenti radicali di tipo pauperistico, il più celebre dei quali fu il movimento francescano. Questo nuovo tentativo di ri- portare la religione alla sua purezza evangelica procedette di pari passo con un rinnovamento delle ansie escatologiche, il cui precursore fu Gioacchino da Fiore: la sua profezia riguardo l’avvento dell’Età dello Spirito, terza e ul- tima era della storia del mondo dopo l’età del Padre (quella dell’Antico Te- stamento) e del Figlio (il Nuovo Testamento), influenzò profondamente i movimenti pauperistici del Duecento e del Trecento, nati in reazione a una crescente perdita di spiritualità del soglio pietrino. Dall’Italia, Spirituali e Fraticelli diffusero le loro idee e le loro pratiche ascetiche di vita in altre par- ti d’Europa29.

Le prediche di strada e nelle piazze furono tra gli elementi caratterizzanti di questo fenomeno; in queste prediche, oltre a invocare il pentimento e la conversione a una vita spirituale sul modello evangelico, non mancavano rinnovati richiami al giudizio finale e alle credenze millenariste, riportate in auge dal gioachimismo. Diversi eventi, del resto, favorivano tali credenze.

Oltre alla cattività avignonese, in Italia in particolare una grave carestia nel 1258 e una prima epidemia nel 1259 si aggiunsero alle devastazioni delle lotte comunali tra guelfi e ghibellini. Era comune l’idea «che tutte queste af- flizioni non fossero altro che il preludio di una catastrofe finale devastatri- ce»30. Queste inquietudini funsero da terreno di coltura al lato più estremisti- co del movimento pauperistico medievale, quello dei flagellanti. Spinte dalle predicazioni radicali nelle città, persone di ogni rango e ceto, ma principal- mente contadini, giovani e poveri, iniziarono a vagabondare in gruppo da

29 Cfr. per un’introduzione al tema G.G. Merlo, Eretici ed eresie medievali, il Mulino, Bolo- gna 2011; G. Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana, Donzelli, Roma 2010.

30 N. Cohn, op. cit., p. 165.

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paese in paese mettendo in scena drammatiche processioni che terminavano con autoflagellazioni pubbliche di inaudita violenza, che sconvolgevano pro- fondamente i cittadini accorsi a osservare questa singolare forma di penti- mento collettivo.

I flagellanti si diffusero in tutta Europa alla vigilia della pandemia di pe- ste nera e favorirono la convinzione che il morbo rappresentasse l’estremo castigo mandato da Dio prima del giudizio finale. Già nel 1348, quando il morbo iniziava a diffondersi, diversi terremoti in Italia e in Carinzia furono interpretati come le «calamità messianiche» che preannunciavano gli ultimi giorni31. I flagellanti e gli altri movimenti spirituali alimentarono di conse- guenza la paura di un imminente castigo divino, con il risultato che l’esplosione della peste andò a innestarsi su un contesto sociale già forte- mente saturo di insicurezza economica, ansie apocalittiche e timori religiosi.

Fu «l’apprensione suscitata dalle voci preannuncianti la peste, più che l’esperienza vera e propria, a mettere in moto le processioni», che di solito sparivano da un territorio dell’arrivo dell’epidemia32. Ma questa apprensione spingeva verso atteggiamenti di follia collettiva che sfociavano in veri e pro- pri eccidi, come quelli che colpirono le comunità ebraiche in tutta Europa:

considerati responsabili del morbo, perché colpevoli di deicidio – un’accusa che la Chiesa medievale non faceva che alimentare nella sua liturgia e nelle sue prediche – gli ebrei furono in quegli anni vittime di spaventosi pogrom che ne sterminarono l’intera popolazione in molte grandi città europee, come Bruxelles, Colonia, Francoforte e Magonza. I flagellanti furono quasi sempre i responsabili di questi eccidi: convinti che l’unico modo per ottenere il per- dono divino fosse quello di distruggere tutto ciò che poteva dispiacere a Dio, ebbero facile gioco nel convincere intere città dell’esigenza di sterminare co- loro che avevano messo a morte Cristo. Anche se le amministrazioni di alcu- ne città resistettero a queste pressioni e chiusero le loro porte ai flagellanti, in molti centri l’arrivo di queste processioni di persone vestite di sacco im- pegnate a fustigarsi a sangue spingeva la gente a comportarsi «come se te- messe che, per castigarla dei suoi peccati, Dio stesse per distruggere tutti col terremoto e col fuoco celeste»33.

Come all’epoca della peste di Giustiniano, l’interpretazione del morbo come castigo di Dio fu senza dubbio la più diffusa. Nel preambolo al Terri- bilis, il documento con cui Edoardo III ordinò nel 1348 che si tenessero pro- cessioni in tutta l’Inghilterra per placare la peste, si legge esplicitamente che è Dio a scatenare epidemie, fame, conflitti, guerre e «altre forme di sofferen- za» per «terrorizzare e tormentare gli uomini e così scacciare i loro pecca-

31 Ivi, p. 176.

32 Ivi, pp. 169-170.

33 Ivi, p. 165.

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ti»34. Secondo il teologo francese Nicolas de Clamanges, Dio non colpisce sempre con lo stesso flagello, ma «non cessa di punire con i suoi colpi: se la guerra civile si placa un poco, ecco che Egli si dà ad affliggerci ad un tempo con la peste e le guerre con altri paesi»35.

Tuttavia, alla metà del Trecento i primi vagiti dell’umanesimo furono in grado di aprire una crepa nella tradizionale interpretazione teologica del fla- gello. L’umanista Francesco Petrarca, in una lettera al suo amico Louis Sanctus, datata maggio 1349, si chiedeva per quale motivo proprio la sua generazione dovesse essere così colpita dall’ira divina, dato che dopotutto non la si poteva definire più peccatrice di ogni altra generazione precedente.

Se la collera divina, a lungo trattenuta, si scatenava infine in un momento particolare del tempo, era certamente una discriminazione singolare, perché Dio aveva risparmiato dai tormenti del mondo persone che in passato erano state molto più peccatrici di quelle attuali, e tormentava persone probe ora solo perché aveva deciso di scatenare la peste in quel preciso momento stori- co. Non potendo concepire che Dio si disinteressasse ai destini degli uomini (come invece bisognava concludere nel caso in cui l’origine della peste fosse meramente naturale), Petrarca sosteneva che le ragioni di Dio restavano cela- te agli esseri umani: forse egli aveva mandato la peste per risparmiare all’umanità drammi ancora più grandi in futuro, per esempio. Ma, sostan- zialmente, Petrarca rifiutava l’idea che le calamità naturali fossero il prodot- to della collera divina36.

Analoghe considerazioni si ritrovano in altri scritti dell’epoca: il medico napoletano Giovanni della Penna scriveva ai suoi colleghi che solo i medici incapaci e ignoranti possono credere che la peste sia mandata da Dio, e li sollecitava a ricercarne le cause scientifiche37. Un secolo dopo, durante uno dei tanti ritorni di fiamma della peste (che avrebbe afflitto l’Europa fino a tutto il XVII secolo), il vescovo di Brescia Domenico Amanti riprendeva le stesse considerazioni di Petrarca in un suo trattato in cui metteva in dubbio l’ipotesi della punizione divina. Egli osservava come, in diversi luoghi della Bibbia, in particolare nel libro di Giobbe, fosse messa in discussione l’idea che Dio punisca per i peccati degli uomini attraverso la malattia. Né si dove- va concludere che coloro che si salvano dalla peste fossero in qualche modo degli “eletti” e coloro che soccombono i veri peccatori, perché i fatti smenti- vano questa ipotesi: il giudizio di Dio avviene infatti dopo la morte, non già in questo mondo. Egli affermava dunque che agli uomini resta il libero arbi-

34 J. Aberth, From the Brink of the Apocalypse: Confronting Famine, War, Plague, and Death in the Later Middle Ages, Londra – New York 2010, p. 127.

35 J. Delumeau, Il peccato e la paura, cit., p. 209.

36 J. Aberth, op. cit., p. 129.

37 Ivi, p. 129.

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trio concesso da Dio, attraverso il quale agire razionalmente per evitare la peste, magari fuggendo dalle città prima dell’arrivo dell’epidemia: un modo per giustificare la scelta di una parte del clero di abbandonare le città anziché restare in preghiera o organizzare processioni, in palese controtendenza ri- spetto a quanto Gregorio II aveva affermato nell’VIII secolo38.

Questo contrasto intorno all’idea tradizionale del Dio punitore si ritrova in molti altri aspetti della religiosità popolare che emerse negli anni della pe- ste nera. Da un lato abbiamo la diffusione delle “danze macabre”, che mette- vano in scena soprattutto la componente livellatrice della morte, in grado di colpire indistintamente ricchi e poveri, giovani e anziani, santi e peccatori, tutti accomunati dalla colpa che l’umanità deve espiare per essersi allontana- ta dalla grazia di Dio, cosicché «proprio dopo la peste nera si diffonde in Ita- lia e oltralpe l’immagine dell’umanità peccatrice, colpita dai dardi della pe- ste»39. Dall’altro, quasi come in risposta a un’idea che comincia a diventare troppo pesante da sopportare, ma al tempo stesso troppo illogica nel contesto rigoroso della teologia scolastica che va prendendo forma in questi anni (Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae, è impegnato in un faticoso tentativo di tenere insieme a un tempo la pastorale della paura e quella della misericordia), sono introdotti nella religiosità popolare alcuni motivi in gra- do di mitigare il concetto del Dio punitore.

Il principale è senza dubbio il Purgatorio, la cui affermazione «fu molto incoraggiata dal trauma costituito dalla Morte nera del 1348-49»40. Il Purga- torio ha una diretta filiazione dall’idea del limbo, diffusa fin dai primi secoli per risolvere il problema dei neonati morti prima di ricevere il battesimo. Si trattava di evitare che, seguendo l’interpretazione letterale di quanto affer- mato da Gesù, secondo cui «se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio»41, coloro che non ricevano il battesimo, pur senza colpe com- messe, finissero all’inferno in forza del peccato originale non rimosso dal rito battesimale. Sant’Agostino aveva escluso la possibilità del limbo, riser- vando ai neonati morti col peccato originale al più dei castighi infernali più miti. Il tomismo entrò in polemica, su questo punto, con l’agostinismo; nel Concilio ecumenico di Firenze-Ferrara, attraverso la bolla Laetentur Caeli (1439), fu in parte recepito questo cambiamento d’opinione, sancendo la di- stinzione delle pene infernali tra i peccatori e i bambini morti senza battesi- mo, distinzione ulteriormente mitigata dal Concilio di Trento, il quale di fat- to confermò la bontà di questa perdurante ipotesi teologica, non senza

38 Ivi, pp. 130-131.

39 J. Delumeau, Il peccato e la paura, cit., p. 172.

40 D. MacCulloch, op. cit., p. 46.

41 Giovanni 3,3.

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scagliare l’anatema, in ogni caso, contro coloro che ritardino il battesimo dei nuovi nati.

Diversamente dal limbo, il Purgatorio divenne un luogo fisico o comun- que una condizione metafisica dell’aldilà sancita dalla dottrina cattolica gra- zie all’azione della teologia scolastica. Per Jacques Le Goff, l’invenzione del purgatorio non fu tanto dovuta a una rinnovata aspirazione per la salvezza, ma per «correggere le disuguaglianze e le ingiustizie di quaggiù»42. In questo senso, poteva rappresentare un modo per meglio motivare il castigo divino dei vivi senza che questo coincidesse con il castigo dei morti: tutti muoiono indistintamente, soprattutto in epoca di epidemia, ma coloro che sono morti senza ritornare nello stato di grazia (magari perché il morbo ha colpito rapi- damente e senza dar tempo di confessarsi o ricevere l’estrema unzione) non necessariamente finiscono all’inferno. Il Purgatorio concede loro un periodo di espiazione nell’aldilà, corroborato dalle preghiere dei parenti e degli amici ancora in vita, i quali cercano così di intercedere per abbreviare il tempo di purificazione. Ciò sembra confermare quanto ipotizzato da Delumeau, se- condo cui nel medioevo si verificò un affievolimento dell’attenzione nei confronti della resurrezione e del giudizio universale a favore dell’accento posto sul giudizio particolare dell’anima, con il risultato di favorire «il dila- gare del macabro e della paura del peccato»43. Le Goff concorda, citando le osservazioni di Émile Mâle secondo cui intorno a questo periodo alle tradi- zionali rappresentazioni dell’Apocalisse in cui «Dio era “al tempo stesso glorioso come un sovrano e minaccioso come un giudice”» si sostituisce l’immagine del Figlio dell’Uomo, «presentato “come il redentore, come il giudice, come il Dio vivente”»44.

La rappresentazione del Cristo-Giudice è una novità dell’iconografia im- mediatamente successiva alla peste nera, ma rappresenta solo uno stadio in- termedio del mutamento dell’idea del Dio punitore. Nelle sue rappresenta- zioni, Cristo «non si cura che di lanciare la maledizione sui dannati», e anzi – osserva Delumeau – se in precedenza «il Cristo del Giudizio universale era rappresentato mentre con una mano benediceva e con l’altra respingeva i dannati», nell’iconografia usata al Campo Santo di Pisa «per la prima volta, Cristo muove una sola mano, quella che caccia i condannati all’inferno»45. Insomma, se certamente a partire dal XIII secolo si comincia a mettere in dubbio, soprattutto nella teologia e nei circoli intellettuali dell’epoca, l’idea che le epidemie rappresentino una punizione inviata da Dio, nella religione popolare la persistenza di questa idea è palese, ed è anzi tanto più enfatizzata

42 J. Le Goff, La nascita del purgatorio, Einaudi, Torino 2014, p. 236.

43 J. Delumeau, Il peccato e la paura, cit., p. 160.

44 J. Le Goff, op. cit., p. 262.

45 J. Delumeau, Il peccato e la paura, cit., p. 172.

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da quel contrasto tipico del Trecento tra mondo secolare e clero, nonché tra la teologia scolastica e i movimenti fondamentalisti, di sapore escatologico e a volte apertamente ereticali, che si diffondono in opposizione alla Chiesa istituzionale:

Coloro che videro quelle sventure abbattersi sulla cristianità ebbero la sen- sazione di essere entrati in un periodo di inconsuete calamità, di cui si pote- va dare spiegazione solo tirando in campo le enormità commesse da un’umanità o da una Chiesa spaventosamente cadute in preda del peccato.

Sul momento tutto pareva in un disordine senza via d’uscita o, meglio, l’unica via d’uscita da una simile crisi pareva essere il Giudizio finale.

Dunque, si deve stabilire l’esistenza di una connessione globale (almeno per una certa fase nel corso del periodo considerato) tra le attese e le apprensio- ni escatologiche da un lato, e la coscienza del peccato, il disprezzo del mondo, l’orrore di se stessi e il sentimento acuto della fragilità delle cose dall’altro46.

A mitigare questa sensazione fu «l’uso della preghiera come via di uscita dal purgatorio»47, che si diffuse nel Trecento soprattutto nel Nord Europa prima che nell’Europa meridionale (dove invece persistette più a lungo, per- ché la Riforma prese di mira tutto l’apparato liturgico e devozionale mirante ad alleviare le pene purgatoriali), ma anche una rinnovata attenzione alla fi- gura della Vergine Maria, la prima tra le sante e come tale considerata in grado di tenere a freno il braccio castigatore di Dio. A partire dal XIV secolo si diffuse dapprima in Italia e poi in Francia, Germania e altrove l’iconografia della Vergine che ripara sotto il suo manto i fedeli che si pon- gono sotto la sua protezione dai dardi della peste48. Secondo John Aberth, dalla fine del Medioevo

a new, more optimistic and forgiving religious attitude toward plague may have been taking shape, which perhaps coincided with, somehow, a lower incidence or virulence of the disease. A faith that “alle shalle be wele” in God’s plan for the world or that saints would intercede with and placate a vengeful deity must have given many the mental and physical fortitude to carry on no matter how much death and misery the plague wrought49.

46 Ivi, p. 209.

47 D. MacCulloch, op. cit., p. 46.

48 J. Delumeau, La paura in Occidente. Storia della paura in età moderna, il Saggiatore, Mi- lano 2018, p. 186.

49 J. Aberth, op. cit., p. 133.

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4.“MAGISTER TORMENTORUM”:L’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA

Dopo una breve tregua, la peste ritorna a ondate in Europa tra il XV e il XVII secolo. Una delle sue conseguenze è quella di continuare ad alimentare quell’inquietudine escatologica mai doma, che collega l’epidemia all’imminente fine del mondo. Nei primi anni del XV secolo Girolamo Sa- vonarola rinnova il motivo nelle sue predicazioni sull’Apocalisse a Firenze50. A favorirne la diffusione non è in questo caso la peste, ma un altro morbo sconosciuto che inizia a diffondersi a macchia d’olio nel continente agevola- to dagli spostamenti degli eserciti, chiamato prima “mal francese” e poi

“morbo napoletano”, infine battezzato sifilide. Una piaga legata al “peccato della carne”, alla concupiscenza, sembrava perfettamente comprensibile in una cornice interpretativa secondo cui a ogni peccato corrisponde, già in vi- ta, una punizione scagliata da Dio. «Il convergere di quei segni mostrava dunque come il Giorno del Giudizio fosse davvero imminente, creando così le condizioni perfette, e del tutto logiche, in cui Savonarola poteva invocare l’avvento di una riforma politica e morale in nome di Dio»51.

Né bastò il rogo di Savonarola a mettere fine a questi nuovi timori. Il movimento dei Piagnoni, com’erano definiti i suoi seguaci, persistette in Ita- lia fino ai primi decenni del XVI secolo e intorno al 1500 – un anno che, rappresentando la metà esatta del millennio, non poteva non ridestare inquie- tudini millenariste – ebbe il suo acme, favorito dal fervore religioso popolare in Spagna, dalle vicende politiche in Italia, e in generale «affondava le radici nei traumi militari, politici, sanitari e sociali dell’ultimo decennio del XV se- colo»52. In quel periodo, per esempio, ebbero grande successo le storie di na- scite mostruose e segni miracolosi, insieme a testi apocalittici come l’Apocalypsis Nova (1502), attribuito al frate francescano portoghese Ama- deus Menzes de Silva, fortemente influenzato dal gioachimismo. Nel libro si raccontava infatti dell’imminente venuta di un Papa angelico, preannunciato dall’apparizione di molteplici figure spirituali, in seguito variamente inter- pretate (da Gioacchino stesso a Francesco d’Assisi o Celestino V). Per met- tere un freno a quest’agitazione, come già oltre mille anni prima aveva fatto il Concilio di Efeso, nel 1513 il Concilio Lateranense proibì la predicazione dedicata al tema dell’apocalisse; anche l’Inquisizione, prima in Spagna e poi

50 Su Savonarola e l’impiego successivo delle sue predicazioni apocalittiche come giustificazione del Dio Punitore si rimanda all’articolo di Riccardo Campa, La causa della peste a Firenze secondo Serafino Razzi. Note sul manoscritto “Vita e morte di Fra Girolamo Savonarola”, in questo nume- ro di «Orbis Idearum», le cui conclusioni sono analoghe a quelle del presente articolo.

51 D. MacCulloch, op. cit., p. 148.

52 Ivi, p. 149.

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in Italia, impose una stretta disciplina in materia di segni, miracoli e fine del mondo53.

Michel Vovelle osserva come, a partire dal Seicento, si evidenzino alcuni mutamenti sostanziali nella mentalità collettiva: l’iconografia del giudizio universale viene gradualmente a scomparire, sostituita da immagini che va- lorizzano il giudizio individuale, in particolare le anime del purgatorio.

Scompare gradualmente anche l’iconografia dell’Apocalisse, che non svani- sce del tutto, ma viene marginalizzata nell’escatologia delle sette54. La Ri- forma protestante rappresentò, in tal senso, un passaggio fondamentale. La base teologica della riforma promossa da Lutero fu la riscoperta della teoria agostiniana della salvezza. Messo in ombra dal successo del tomismo, il pen- siero di sant’Agostino era stato riscoperto nella cristianità dopo che ne era stata stampata l’opera omnia nei decenni immediatamente precedenti alla Ri- forma. Il passaggio dal pensiero medievale a quello umanistico e rinascimen- tale moderno, caratterizzato da un nuovo clima escatologico, ne favorì il ri- torno in auge55:

Nella dura e cupa teologia agostiniana, lontanissima dalla evangelica «mise- ricordia paterna», non c’era posto che per questo volto di Dio spietato,

«lambiccatore», nel suo tetro laboratorio di magister tormentorum, di nuove quintessenze di pene, sanguinario idolo onniveggente, chasseur dagli occhi di lince e dal cuore di pietra, implacabile traqueur d’abominevole selvaggi- na.56

Com’è noto, Lutero stesso fu ossessionato dall’angoscia di un Dio costan- temente impegnato a catalogare i peccati degli uomini per punirli conseguen- temente. Nella concezione agostiniana, Lutero trovò una possibile via d’uscita: la giustificazione. Alcuni uomini sono stati giustificati da Dio, sal- vati per opera della sua misericordia a prescindere dalle loro opere, per sola fide. Accettando questa idea, è possibile e auspicabile sperare di essere nel novero di coloro che sono stati già giustificati da un Dio di misericordia, e vivere serenamente. Per tutti gli altri, il destino ha già riservato i tormenti eterni dell’inferno.

La concezione agostiniana fu conseguentemente contrastata da altre teo- logie, che privilegiavano la misericordia di un Dio paterno alla maestà di un Dio giudice inappellabile. I nominalisti della scuola di Guglielmo di Occam, per esempio, introdussero l’idea che i fedeli e persino i pagani potessero

53 Ivi, p. 150.

54 M. Vovelle, La morte e l’Occidente dal 1300 ai giorni nostri, Laterza, Bari-Roma 2000, p.

205.

55 J. Delumeau, Il peccato e la paura, cit., p. 478.

56 P. Camporesi, La casa dell’eternità, il Saggiatore, Milano 2018, p. 62.

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conseguire la salvezza attraverso i meriti conquistati nel corso della propria vita, per intercessione di un Dio misericordioso che teneva conto del bene fatto in vita. Un’idea diametralmente opposta alla giustificazione del neo- agostinismo. Scrive MacCulloch:

Tanto i protestanti che i cattolici vivevano l’esperienza di un Dio costante- mente pronto a intervenire nel mondo e a rivolgersi loro direttamente con sempre nuovi annunci, tramite i fenomeni naturali oppure mediante la voce di messaggeri da lui scelti. La concezione che Calvino aveva della relazione di Dio con il creato metteva particolarmente in rilievo il carattere onnicom- prensivo della provvidenza divina, ma il presupposto sottostante a quella concezione era caratteristico tanto dell’Europa cattolica e luterana che dell’Europa riformata. In effetti, i protestanti erano particolarmente inclini a prestare attenzione ai segni e alle anomalie naturali quali le nascite mo- struose o le condizioni meteorologiche anormali perché, essendosi liberati del potere dei santi di compiere miracoli, volevano mettere in primo piano l’immediatezza della potenza divina57.

La Controriforma non pensò affatto a mettere in discussione l’immagine del Dio punitore che i riformati avevano rilanciato, pur in un mutato contesto teologico ed ecclesiale. Nel Rituale Romano entrato in vigore nel 1614, mo- dificato solo con il Concilio Vaticano II, le processioni in tempo di peste si concludevano con la seguente orazione: «Concedici, te ne preghiamo, o Si- gnore, l’esaudimento della nostra pia preghiera: e allontana, placato, la pesti- lenza e la mortalità; affinché i cuori dei mortali sappiano che tali flagelli si manifestano per la tua indignazione e cessano per la tua misericordia»58. L’iconografia controriformista fu segnata da un autentico apogeo di arazzi, vetrate, miniature e incisioni che «moltiplicano la raffigurazione del Figlio dell’Uomo con una spada tra i denti»59. Nel trattato incompiuto Le quattro cose ultime (1522), Thomas More scriveva che il modo migliore per evitare il peccato fosse «una profonda contemplazione del tremendo giudizio di Dio e delle amare pene del purgatorio o dell’inferno, ciascuna delle quali supera e oltrepassa molte morti»60.

Allo scoppio dell’epidemia di peste del 1630 a Venezia, destinata a ucci- dere quasi un terzo della popolazione, il Senato emanò due decreti d’emergenza per il contenimento dell’epidemia. Il primo di questi, conside- rando l’epidemia segno dell’ira divina, istituiva tre luoghi di speciale santità, rispettivamente attorno alla basilica di San Marco, alla chiesa di San Rocco e

57 D. MacCulloch, op. cit., p. 706.

58 Rituale Romanum 1614, p. 184, trad. di A. Nicolotti in op. cit.

59 J. Delumeau, Il peccato e la paura, cit., p. 530.

60 Cit. in W.M. Spellman, Breve storia della morte, Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 114.

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alla cattedrale di San Pietro di Castello. In questi tre luoghi sarebbero state esposte le reliquie dei santi per ottenere la loro protezione dalla peste, in modo analogo a quanto a Milano era avvenuto pochi giorni prima con una processione di sei ore in cui un poco convinto Federigo Borromeo aveva portato in giro le spoglie di suo zio, Carlo Borromeo, considerato colui che nel 1570 aveva messo un freno alla collera divina e fermato la peste. Non so- lo: ma il Senato veneziano prevedeva anche una stretta contro le bestemmie, la blasfemia, il gioco d’azzardo, il lusso; i magistrati avevano il compito di garantire l’osservanza delle misure61. Il digiuno, ordinato dalle autorità ec- clesiastiche – sia protestanti che cattoliche, in particolari dai gesuiti nell’Europa meridionale – in periodi di emergenza come le epidemie o le guerre, arrecava «un senso di soddisfazione a chi vi partecipava dando l’impressione che l’intera comunità potesse fare qualcosa per alleviare le proprie sofferenze»62.

Insomma, nonostante, nei Vangeli, a più riprese Gesù si fosse pronuncia- to contro il nesso tra peccati e sventure, e in almeno un episodio celebre rim- provera Giacomo e Giovanni che avevano sollecitato di far scendere il fuoco dal cielo per distruggere la città dei samaritani che avevano resistito alla sua predicazione63, evidentemente le pagine dell’Antico Testamento continuava- no a fare più presa nei sermoni e nelle predicazioni, probabilmente a causa delle continue preoccupazioni legate all’infuriare di malattie, epidemie, care- stie e guerre:

Gli europei vissuti tra la comparsa della peste nera e la fine dei conflitti di religione ebbero la sensazione che le sventure si accumulassero (epidemie, carestie ripetute, guerre civili e guerre con altri, fratture confessionali, mi- naccia turba). E allora videro in esse delle punizioni venute dall’alto e cre- dettero di scorgere nella proliferazione del mostruoso il segno precorritore di castighi ancora più pesanti. Le vendette divine non facevano che rendere più palese l’onnipresenza del peccato che le aveva provocate64.

Analoghe considerazioni sono svolte da MacCulloch:

Le spaventose condizioni meteorologiche che caratterizzarono l’ultimo de- cennio del XVI secolo, causando tra i più scarsi raccolti a memoria d’uomo e probabilmente i peggiori da alcuni secoli a questa parte, alimentarono an-

61 B. Pullan, Plague and perceptions of the poor in early modern Italy, in T. Ranger, P. Slack (eds.), Epidemics and ideas: Essays on the historical perception of pestilence, Cambridge University Press, New York 1999, p. 102.

62 D. MacCulloch, op. cit., p. 709.

63 Luca 9,51-56.

64 J. Delumeau, Il peccato e la paura, cit., p. 546.

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cor più la convinzione che la fine del mondo fosse prossima, e, quando il ri- cordo di quegli anni cominciò a svanire, fu la politica a innescare una nuova sequela di catastrofi con lo scoppio della Guerra dei Trent’anni. Dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, due, la carestia e la guerra, avevano già fatto la lo- ro apparizione calcando in modo devastante le scene europee. La paura del- la Fine dei Tempi cominciò a dissolversi soltanto negli ultimi anni del XVII secolo.65

Con l’affievolirsi del richiamo apocalittico, e probabilmente con il ridursi delle ondate epidemiche, iniziò a emergere una nuova concezione: Dio non mandava le epidemie per distruggere l’umanità o per dare libero corso alla sua “collera scatenata”, né per dimostrare la sua superiorità sul mondo degli uomini; le catastrofi naturali andavano piuttosto considerate come un “cor- rettivo”, un’ultima chiamata alla purificazione e alla conversione, un tentati- vo di ottenere un miglioramento morale. In questa chiave, i magistrati vene- ziani del 1630 interpretavano la peste e le loro azioni per ripristinare un corretto rapporto tra società e divinità66.

5.“MITIS IUDEX”: LE CONTRADDIZIONI DELLERMENEUTICA MODERNA

Il graduale venir meno della peste, a partire dal XVIII secolo, e un mutato quadro culturale, favorirono la messa in discussione delle tradizionali cate- gorie interpretative delle calamità. Michel Vovelle osserva che, a partire dal giansenismo, e ancora più nel Settecento, iniziò ad affermarsi un’interpretazione delle pene eterne dell’inferno come frutto della privazione della presenza di Dio. L’escatologia apocalittica del giudizio universale sembrò arretrare, perlomeno nell’iconografia e nei topos dei sermoni e delle prediche del periodo, a favore di «un’immagine più familiare del paradiso», una «enfatizzazione del cielo»67 che sembra attenuare l’inquietante idea del castigo eterno dell’inferno con una rinnovata speranza in una salvezza delle anime operata da un Dio misericordioso. Analoghe considerazioni sono svol- te dallo storico William M. Spellman, come Vovelle studioso dell’immaginario della morte, il quale osserva una ridefinizione della «geo- grafia dell’aldilà»: «La fiammeggiante dimora di Satana, che l’evangelista Matteo descriveva come una “fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti”, è scomparsa dalla mappa del regno eterno»68.

Non è però un ritorno agli inferi greci o allo Sheol dell’ebraismo, cioè a

65 D. MacCulloch, op. cit., p. 705.

66 B. Pullan, op. cit., p. 105.

67 M. Vovelle, op. cit., p. 486.

68 W.M. Spellman, op. cit., p. 191.

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concezioni neutre, grigie e un po’ deprimenti dell’aldilà: si assiste piuttosto a un processo di «dissoluzione dell’inferno», o quantomeno «la sua elimina- zione dal discorso ufficiale»69. Già un popolare libro di fine Ottocento, The Unknown Country, Or What Living Men Believe Concerning Punishment Af- ter Death (1889), in cui si esponevano le opinioni di diversi teologi prote- stanti sul tema dell’inferno, dimostrava come la credenza nella letteralità del- le fiamme eterne che consumano i peccatori fosse ormai platealmente messa in discussione, al punto che pochi anni più tardi il reverendo George Wolfe Shinn della Chiesa d’Inghilterra avrebbe sbottato: «Che cosa ne è stato dell’inferno?» schierandosi a favore dei letteralisti o fondamentalisti del ca- stigo eterno70. Commenta Vovelle: «L’insistenza ossessiva sul peccato, an- cora ieri giustificazione essenziale, è scomparsa, e al centro del messaggio proposto troviamo la buona novella della resurrezione»71.

Questa trasformazione, ovviamente, non avviene in modo indolore. Il persistente richiamo dei vecchi topos è molto forte. Le evocazioni classiche del fuoco, dello zolfo, dell’oscurità, dello stridor di denti non svaniscono di punto in bianco, anzi, osserva Vovelle, al livello delle comunità di fedeli, nelle predicazioni, il discorso raramente cambia, tanto nel cattolicesimo con- troriformista quanto presso i puritani i cui predicatori «diffondono nel cuore del Settecento un discorso spesso apocalittico (benché astratto) sugli eterni tormenti dell’inferno»72. Dai pulpiti si lanciano spesso invettive contro una supposta “rilassatezza” di toni e immagini, che il richiamo alla misericordia divina favorirebbe. Piero Camporesi ricorda quanti denunciano l’inganno manifestissimo di un «abuso della misericordia di Dio», stratagemata Sata- nae, «perché il “Tentatore, usando il suo consueto artifizio, ci parlerà della divina Misericordia, affinché superiamo il timor del peccato”»73.

Al riapparire delle epidemie, il dibattito torna ad affacciarsi prepotente- mente. Col diffondersi del colera in Francia nel 1832, il clero parla aperta- mente della «collera del Dio di giustizia» destinata a crescere al punto che

«ben presto ogni giorno avrà il suo migliaio di vittime»74. Su La Gazette, set- timanale legittimista e quindi legato agli ambienti del cattolicesimo reaziona- rio, si legge: «L’epidemia che devasta Marsiglia non ha fatto altro che rende- re più vivo lo zelo religioso dei suoi abitanti. Ogni volta che il santo viatico viene portato durante la notte, una folla di cittadini si sente in dovere di ac- correre immediatamente in Chiesa per accompagnarlo»75. In ambito prote-

69 Ibidem.

70 J. Bourke, Paura. Una storia culturale, Laterza, Bari-Roma 2015, p. 48.

71 M. Vovelle, op. cit., p. 649.

72 Ivi, p. 260.

73 P. Camporesi, op. cit., p. 75.

74 J. Delumeau, La paura in Occidente, cit., p. 181.

75 Ivi, p. 182.

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stante, l’anonimo autore del pamphlet Disasters on Sea and Land (1881), at- traverso il racconto dei più recenti e drammatici disastri avvenuti nel mondo, conclude che le calamità sono sempre «“permesse dalla Saggia Provvidenza”

in quanto insegnamenti morali e “terribili ammonimenti sulla precarietà di questa vita transitoria”»76.

Vero è che, nel corso del XIX secolo, il millenarismo è ormai abbandona- to dal cristianesimo istituzionale e definitivamente relegato al discorso del settarismo, in particolare dei nuovi movimenti religiosi che emergono in quel periodo, come i Testimoni di Geova, gli Avventisti o i Mormoni. Quando, nel 1918, la pandemia di influenza spagnola colpisce il Sudafrica, si osserva una polarizzazione radicale tra l’interpretazione del flagello da parte della chiesa anglicana, che parla di cause naturali e respinge ogni tentazione di let- tura religiosa, e il fondamentalismo delle chiese afrikaans, che affermano all’opposto l’origine divina del male, in particolare come punizione contro l’occupazione coloniale britannica. Disprezzando esplicitamente la «fede nella scienza» degli anglicani, che i teologi afrikaner considerano simbolo del loro peccato e dell’allontanamento dalla grazia di Dio, e rilanciando le tesi secondo cui il morbo sia da considerarsi il segnale dell’imminente Se- conda Venuta, sulla base di profezie di sedicenti sensitivi, emerge chiara- mente la deriva settaria di queste chiese77.

Nel corso del Novecento, i richiami apocalittici sono relegati all’ambito dei telepredicatori americani o delle presunte apparizioni mariane, che otten- gono enorme popolarità. I messaggi di Veronica Lueken, una veggente catto- lica a cui sarebbe apparsa la Madonna, parlano di un’imminente fine del mondo che la preghiera dei fedeli può posporre nel tempo. Comunismo, se- colarismo, modernismo, decadenza morale, omosessualità, aborto sono i peccati di cui l’umanità si sarebbe macchiata. Secondo Leuken, una pestilen- za avrebbe colpito gli Stati Uniti, seguita da terremoti, fame e altri flagelli78. Questi motivi ricorrono anche nei “messaggi” della Madonna di Anguera, che comunicherebbe dal 1987 con il veggente brasiliano Pedro Regis attra- verso scrittura automatica, profetizzando periodicamente pestilenze su gran- di città in tutto il mondo79.

La reazione della teologia istituzionale contro queste derive si fa insisten- te. A partire dalla stagione della teologia liberale tedesca di fine XIX secolo, la messa in questione dell’idea del Dio punitore e del nesso colpa-peccato-

76 J. Bourke, op. cit., p. 55.

77 T. Ranger, Plagues of beasts and men: prophetic responses to epidemic in eastern and southern Africa, in T. Ranger, P. Slack (eds.), op. cit., pp. 264-265.

78 D. Wojcik, The End of the World As We Know It: Faith, Fatalism, and Apocalypse in America, New York University Press, New York – Londra 1997, p. 91.

79 R. Paura, Madonne, telepredicatori, profeti…, cit.

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castigo diventa un tema ricorrente. Per il teologo luterano Adolf Harnack, se fu opportuno rifiutare il marcionismo – la tesi proposta da Marcione nel cri- stianesimo primitivo secondo cui il Dio vendicativo dell’Antico Testamento non ha nulla a che fare con il Dio misericordioso del Nuovo Testamento, proponendo di rigettare i testi della religione ebraica – perché altrimenti la diffusione del cristianesimo ne sarebbe stata ostacolata, è tuttavia giunta or- mai l’ora di liberare «l’annuncio da quella che ormai apparirebbe chiaramen- te come una zavorra»80, vale a dire l’immagine del Dio veterotestamentario.

Ad essa Harnack, come pure successivamente Karl Barth, e a seguire gli in- fluenti teologi cattolici tedeschi Hans Urs von Balthasar e Karl Rahner, con- trappongono l’idea che il piano di salvezza di Dio contempli la possibilità di sconfiggere il male in modo totale, cosicché nessuno debba essere considera- to a priori condannato alla dannazione eterna.

Per il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, de-colpevolizzare Dio dalle calamità che affliggono il mondo è essenziale per restituirgli la sua autentici- tà rispetto a quanti nel corso della storia hanno cercato di proporlo come

“tappabuchi” per spiegare quei fenomeni su cui la scienza, per ignoranza, ta- ceva. Secondo il ragionamento di Bonhoeffer, un Dio-tappabuchi è un ri- schio perché, con l’ampliamento delle conoscenze umane, il suo ruolo ne ri- sulterebbe gradualmente ridimensionato, fino a renderlo del tutto inutile, come già aveva intuito Laplace: «Questo vale per la relazione tra Dio e la conoscenza scientifica. Ma vale anche per le questioni umane in generale, quelle della morte, della sofferenza e della colpa. Oggi le cose stanno in mo- do tale che anche per simili questioni esistono delle risposte umane che pos- sono prescindere completamente da Dio»81.

Anche la liturgia cattolica inizia a oscurare alcune delle pagine più pro- blematiche e sconcertanti dell’Antico Testamento, escludendole dalle letture canoniche e demandando alla catechesi il compito di contestualizzarle82. Se- condo il modello “dialettico” oggi ampiamente utilizzato, le storie dell’Antico Testamento sarebbero superate dal Nuovo Testamento, per cui l’interpretazione di Dio giunge al pieno compimento con l’avvento di Gesù, che supera la Legge attraverso la misericordia. In questo quadro ermeneuti- co, il cristiano dopo la rivelazione del Figlio giunge a comprendere «che Dio non è che amore e che ciò che credeva un tempo essere un atteggiamento d’ira era semplicemente l’incontro fra questo amore e tutto ciò che lo ostaco- lava, come un fiume potente che travolge tutto ciò che trova nel suo passag-

80 F. Ferrario, La teologia del Novecento, Carocci, Roma 2011, p. 24.

81 D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 383.

82 G. Tanzella-Nitti, Una immagine credibile di Dio. La rilettura della violenza nella Bibbia alla luce dell’evento di Gesù di Nazaret, «Annales Theologici», N. 28, 2014, p. 89.

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gio»83. Una versione alternativa di questo modello interpretativo guarda alla Scrittura come a un prodotto per accumulazione dei tentativi degli agiografi di comprendere il senso degli eventi attraverso cui Dio si rivela agli uomini:

La visione funzionale della violenza è in fondo la risposta con cui l’agiografo interpreta essenzialmente i fatti, rappresentando un Dio che, se vuole essere efficace, deve saper vincere il male con la forza e la violenza, ma anche saper combattere contro chiunque si opponga ai piani che egli ha sulla storia. Quell’interpretazione funzionale che risulterebbe insufficiente (…) a livello di mera interpretazione odierna del testo scritto, viene invece riabilitata se questa è la prospettiva originale del redattore84.

Il problema, tuttavia, è ben lontano dall’essere risolto. Come osserva An- drea Nicolotti, la teologia e la pastorale della misericordia implicano il «do- ver sconfessare le centinaia di santi e pastori che per secoli in occasioni di [epidemie] e delle catastrofi hanno incentrato la loro predicazione sulla colpa e sul peccato degli uomini»85. Ciò non è affatto semplice. Né è prova l’episodio in cui nel 2011, sulla popolare emittente cattolica Radio Maria, lo storico conservatore Roberto de Mattei, noto per le sue prese di posizioni po- lemiche contro il riformismo cristiano, affermò che il terremoto di Fukushi- ma in Giappone andava considerato come un castigo mandato da Dio. A so- stegno di quella tesi, egli richiamò una presunta profezia di sant’Annibale di Francia risalente al 1905, che avrebbe anticipato il terremoto di Messina del 28 dicembre 1908, affermando «che Messina è sotto la minaccia dei castighi di Dio: essa non è meno colpevole di tante altre città del mondo che sono state distrutte o dal fuoco o dalle guerre o dai terremoti»86. Al gesuita Gian- domenico Mucci, che gli rispose con un duro articolo sull’influente rivista La Civiltà Cattolica, obiettando che «la sofferenza non ha il senso di un ca- stigo del peccato, ma quello di una misteriosa conformazione e associazione all’opera redentrice di Cristo»87, de Mattei rispose citando un “vaticinio” di san Giovanni Bosco del 1870, riportato proprio su La Civiltà Cattolica nel 1872, in cui Gesù avrebbe sollecitando a correre «a piangere tra il vestibolo e l’altare, invocando la sospensione dei flagelli», accusando il clero di igno-

83 Frère John di Taizé, L’ira di un Dio d’amore. Decifrare un enigma biblico, Morcelliana, Brescia 2020, p. 126.

84 G. Tanzella-Nitti, op. cit., p. 104.

85 A. Nicolotti, op. cit.

86 R. de Mattei, I castighi di Dio nella Fede cattolica, «Corrispondenza Romana», 6 giugno 2011: https://www.corrispondenzaromana.it/i-castighi-di-dio-nella-fede-cattolica-il-professor- de-mattei-risponde-a-padre-mucci-sj/.

87 G. Mucci, La verità e lo scandalo, «La Civiltà Cattolica», N. 3862, maggio 2011, pp. 351- 356.

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