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View of Opposition and Truth: Parmenides’ Enigmatic Way

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Academic year: 2021

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Opposizione

e verità: l’enigmatica

via di Parmenide

LUIGI VERO TARCA / Venezia /

1. L’opposizione come verità

Come tutti i testi classici e in particolare quelli antichi, anche il Poema sulla natura di Parmenide presenta una serie di problemi che a volte possono apparire dei veri e propri enigmi. Consideriamo per esempio i versi 37–41 del frammento B 8 della raccolta Diels e Kranz (1964): [...] ἐπεὶ τό γε Μοῖρ’ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ’ ἔμεναι· τῶι πάντ’ ὄνομ(α) ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα ϕανὸν ἀμείβειν. [...] poiché la Sorte lo ha vincolato ad essere (un) intero immobile; per il quale saranno nome tutte quelle cose che i mortali (sup)posero, convinti che fossero vere,

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nascere e perire, essere e non,

e cambiar luogo e mutare luminoso colore1.

Questo passo colloca sullo stesso piano le nozioni che definiscono “l’immobile [ἀτρεμὲς] cuore della verità ben rotonda” (B 1 29)2, cioè l’opposizione dell’essere

rispet-to al non essere (εἶναί τε καὶ οὐχί: B 8 40), e quelle che invece caratterizzano le opinioni dei mortali (βροτοὶ: B 8 39): nascere e perire, cambiare luogo e mutare aspetto. Sicché – così pare di dover concludere – in questo caso accade che il cuore della verità e le opinio-ni dei mortali vengono considerati equivalenti, cioè, alla lettera, dotati dello stesso valo-re. Questo, però, genera un dilemma: o persino le opinioni dei mortali vengono elevate al rango della verità, oppure è quest’ultima che viene abbassata al loro livello; in entrambi i casi si tratta di una situazione imbarazzante dal punto di vista teorico.

Perché, anche se si fa propria la prospettiva interpretativa – peraltro ben fondata – per la quale la seconda metà del Poema espone la verità relativa ai fenomeni naturali (la physis) e quindi costituisce anch’essa un momento della verità (sia pure distinto dal suo ‘saldo cuore’)3, risulta comunque difficile lasciar cadere l’opposizione tra la

dimensio-ne della verità e quella delle opinioni dei mortali dimensio-nelle quali, come la Dea aveva chiarito fin dall’inizio, “non c’è una vera certezza” (B 1 30)4. Le opinioni dei mortali, proprio per

il loro carattere non veritiero, vanno distinte non solo dall’immobile cuore della verità (l’opposizione dell’essere e del non essere, che chiameremo dunque opposizione

ontologi-ca) ma anche dall’insieme delle opinioni veritiere relative alla realtà fenomenico-sensibile,

quelle che costituiscono appunto l’interpretazione ‘verace’ dei fenomeni naturali espo-sta nella seconda parte del Poema, cioè a partire da B 8 50 in avanti. Se qui ci si riferisce dunque alle fallaci opinioni dei mortali, come è possibile che tra queste venga inclusa anche l’opposizione tra essere e non essere? Anche se si volesse interpretare nel senso che le nozioni dei mortali non sono di per sé errate, ma sono semplicemente relative o limitate in quanto sono soltanto un ‘nome’ per l’essere e non la verità stessa dell’essere, ebbene, anche in questo caso risulterebbe fortemente problematico collocare la nozione di “essere” sullo stesso piano degli altri nomi, quelli relativi.

Questa, appunto, la difficoltà; anche se si riesce a conservare il carattere della verità alla nozione di essere presentata nel verso 40 del nostro frammento – impresa già di per sé difficile, data la pesante sottolineatura del carattere ‘mortale’, quindi erroneo, delle nozioni di cui si sta parlando – ci si trova comunque nell’imbarazzo di vedere

colloca-1 La traduzione dei frammenti è mia, nel senso che ho introdotto qualche motivata modifica rispetto a quella

fornita da G. Reale in Parmenide (2010).

2 Qui e in seguito la prima cifra si riferisce al numero del frammento (B) di Parmenide nella raccolta

Diels-Kranz, e il secondo al numero del/dei verso/i.

3 Si veda su questo, tra l’altro, l’interpretazione proposta in Ruggiu (2010a e 2010b). 4 Cfr. anche B 6 4–9.

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te sullo stesso piano le nozioni fisiche relative alle sia pur veraci opinioni sulla natura e la nozione dell’essere.

A questa difficoltà si può sensatamente rispondere dicendo che ciò di cui qui si sta parlando non è il cuore della verità, cioè l’opposizione ontologica (dell’essere e del non essere), ma il modo errato di interpretare tale opposizione, precisamente quello che tratta due essenti come poli di un’opposizione ontologica, la quale invece può riguardare solo l’essere e il non essere. L’errore, insomma, non consiste nell’opporre l’essere al nulla, ma nel trattare due entità come se l’una fosse l’essere e l’altra il nulla. Proprio questa iden-tificazione costituisce la madre di tutti gli errori, cosa che ci consente e anche ci impone ora una rilettura complessiva della seconda parte del Poema.

Nei versi in questione (B 8 37–41) la Dea sta parlando del principale errore dei mortali, consistente appunto nel riferire l’opposizione ontologica (dell’essere e del nulla) a elemen-ti che appartengono entrambi all’essere. In tal modo, infatelemen-ti, lungi dal salvaguardare la verità dell’opposizione ontologica originaria, quella tra l’essere e il non essere, se ne rovescia completamente il senso, perché si finisce per porre qualcosa come identico al non essere. Insomma, l’errore dei mortali consiste nel porre qualcosa come essere (εἶναι: B 8 40) e nel contrapporre ad esso qualcosa che non è (οὐχί: ibidem). L’errore non consiste nel contrapporre l’essere al non essere, ma nel confondere l’opposizione ontolo-gica con le opposizioni tra enti, opposizioni che per questo possiamo chiamare ontiche.

Nel caso specifico dei versi 40–41 del frammento 8 l’errore consiste nell’interpre-tare il divenire, cioè il movimento in cui consiste il nascere e il perire, come un passag-gio dall’essere al non essere e viceversa; oppure nell’interpretare lo spostamento da un luogo a un altro come un movimento nel quale uno dei due estremi viene concepito come essere e l’altro come non essere; e ancora, analogamente, nell’interpretare il mutamento di qualità (colore) come l’opposizione tra uno stato di essere e uno stato di non essere, quindi come passaggio da una condizione di essere a una condizione di non essere.

Questa interpretazione trova un’importante conferma in un verso precedente, e nello stesso tempo aiuta a dare di esso un’interpretazione più convincente e quindi pure una traduzione più esatta. Mi riferisco al verso 8 del frammento 6.

La Dea ha appena detto che Parmenide deve tenersi lontano non solo dall’assurda via del non essere5 ma anche da quella battuta dai mortali privi di giudizio, per i quali

τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, per i quali, cioè (così viene di solito tradotto il passo) “l’essere e il non essere vengono intesi come lo stesso e non lo stesso”6. Il verbo πέλειν viene tradotto con “essere”, cioè come se fosse εἶναι. Ma

Parme-nide non dice che i mortali pensano che εἶναι sia e non sia lo stesso che εἶναι, dice inve-ce che pensano che πέλειν sia e non sia lo stesso che εἶναι. Certo il verbo πέλειν ha un

5 Sulle questioni relative al verso 3 del frammento 6 si dirà qualcosa più avanti.

6 Reale traduce: “[…] dai quali essere e non-essere sono considerati la medesima cosa e non la medesima

cosa” (cfr. Parmenide 2010: 95); Cerri traduce: “[gente insensata,] ch’“essere” pensa e “non essere” sia e non sia lo stesso” (cfr. Parmenide di Elea 1999: 151).

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significato che in determinati contesti può essere correttamente tradotto con “essere”; ma qui è importante conservare la distinzione che il testo greco presenta, anche perché le due differenti traduzioni danno luogo a due interpretazioni filosofiche profondamente diverse, e su un punto decisivo. Se diciamo che l’errore dei mortali consiste nell’affermare l’identità e la non identità di essere e non essere, in sostanza veniamo a identificare questa seconda via dalla quale la Dea ci vuole tenere lontani con la prima rispetto alla quale ci aveva messi in guardia. Quella era infatti la via nella quale si afferma il non essere; essa quindi è già di per sé contraddittoria, perché affermare il non essere significa automa-ticamente porlo come qualcosa che è: la via impercorribile è proprio la contraddittoria via che ponendo il non essere lo pone inevitabilmente come qualcosa che è e che non è, essa pone insomma l’essere come identico e non identico al non essere. In tal modo si fa fatica a vedere in che cosa la seconda via dalla quale la Dea tiene lontano Parmeni-de, quella cioè effettivamente battuta dai mortali, si distingua dalla prima, quella total-mente e assolutatotal-mente impercorribile (cfr. B 2 6–8). Conservare la differenza tra πέλειν ed εἶναι ci consente invece di cogliere la distinzione tra le due vie. La prima è quella, del tutto impercorribile – tant’è vero che nemmeno i mortali dalla doppia testa (B 6 5) possono percorrerla – la quale sostiene l’assurda identità dell’essere e del non essere; identità, che, proprio perché contraddittoria, viene nello stesso tempo inevitabilmente affermata e negata. La seconda è invece la via che effettivamente i mortali percorrono, quella che non identifica un termine (essere) con la sua negazione (non essere), ma iden-tifica un termine che indica un modo di essere (πέλειν) con il non essere. Naturalmente pure tale posizione viene ad essere implicitamente contraddittoria, e quindi l’identità dei due termini viene insieme affermata e negata. Anche solo per questo, non è che in tale distinzione non vi siano problemi teorici, e anche seri, e tuttavia almeno in prima battuta dobbiamo prendere atto di questa differenza. Ebbene, qual è l’essente che nominiamo “πέλειν”7? Insomma, come dobbiamo tradurre questo termine? Il modo più semplice e più

convincente per renderlo in italiano secondo me è quello di tradurlo con il termine “dive-nire”, il quale ha un significato abbastanza vicino a quello di essere ma nello stesso tempo è distinto da esso, e anche dal punto di vista letterale costituisce una traduzione abbastan-za precisa. Grazie a questa traduzione noi possiamo allora dire che l’errore dei mortali consiste appunto nell’identificare il “divenire” con il “non essere”; nell’interpretare cioè i movimenti, i passaggi di cui l’essere è pieno (movimenti e passaggi che avvengono tutti

all’interno dell’essere), come passaggi dall’essere al non essere e viceversa.

L’errore consiste dunque nell’interpretare le opposizioni tra gli essenti, opposizioni che inevitabilmente si danno in natura, come dicotomie che contrappongono un essere a un non essere. Questo è sbagliato perché, qualunque sia la polarità ‘reale’ con la quale si ha a che fare, le due opposte entità sono “uguali” ontologicamente, “perché con nessu-na delle due c’è il nulla” (B 9 4). Ho introdotto qui questo verso del frammento 9, appar-tenente alla seconda parte del Poema, appunto perché intendo ora mostrare come

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terpretazione fornita consenta di proporre una lettura convincente e plausibile pure della seconda parte del testo, e quindi dell’intero Poema.

I mortali hanno, relativamente ai fenomeni naturali, opinioni erronee perché hanno dato nome a due forme (δύο γνώμας ὀνομάζειν: B 8 53) “una delle quali non è necessaria – e in questo si sono ingannati” (B 8 54). Dal momento che l’essere è caratterizzato dalla necessità8, considerare una forma reale come non necessaria equivale a trattarla come

non essere. A causa di ciò i mortali hanno considerato le due forme opposte come qual-cosa di reciprocamente incompatibile (τἀντία: B 8 55), qualqual-cosa i cui “segni” (σήματ[α]: B 8 55), in quanto collocati al di fuori della connessione necessaria che vincola tutte le cose, sono posti “separatamente [χωρὶς] gli uni dagli altri” (B 8 56): nell’essere, che è caratterizzato dal suo essere un tutto uguale da ogni parte9, si introduce la scissione.

Poli opposti sono, per esempio e in particolare, il fuoco (B 8 56) e la notte (B 8 59); ovvero luce e notte (B 9 1), luce e tenebre. Essi dai mortali vengono considerati oppo-sti l’uno all’altro come se si trattasse di essere e non essere. Questo è appunto l’errore; perché anche la tenebra, come la luce, è essere, e da questo punto di vista entrambe sono identiche: anche la più radicale delle opposizioni tra gli enti conserva quel fondo di iden-tità costituito dal fatto che entrambi i poli dell’opposizione sono degli essenti.

Ma l’identità ontologica universale (tutto è essere) non può significare l’indistinzione dei differenti, l’annullamento dell’alterità tra i poli opposti (il giorno e la notte); la loro differenza viene conservata, ma ora, alla luce della legge dell’essere, essa assume la forma della reciproca appartenenza dei due poli opposti: nell’orizzonte dell’essere, che tutto comprende, le due entità ‘opposte’ si connettono l’una all’altra in maniera necessaria dando luogo al vario combinarsi degli elementi naturali. Nella realtà fisica, insomma, la coincidenza di due poli opposti può presentarsi solo sotto forma di movimento. Così, la Necessità (B 10 6) – che rimane la legge dell’essere anche quando si tratta dei fenome-ni della natura – non è la contrapposizione senza mediazione (senza congiunzione) tra la luce e le tenebre, ma non è neppure la cancellazione della differenza tra le due, è bensì il movimento degli astri celesti condotti, nel loro percorso lungo la volta del cielo, dal saldo polso di Ἀνάγκη (B 10 6–7).

È dall’impulso (μένος: B 11 3) alla reciproca congiunzione che si generano tutte le cose dell’universo, della natura (B 11): dalle corone di fuoco non mescolato (ἀκρήτοιο: B 12 1) a quelle nelle quali nelle tenebre viene immessa una parte di fuoco (B 12 2). La divi-nità governa (B 12 3) la mescolanza (κρᾶσιν: B 16 1) degli elementi dalla quale si genera l’universo. E l’intero comportamento della natura è spiegato mediante la ‘congiunzione’ (cfr. μίξιος: B 12 4) che definisce la vita. Questa, infatti, è generata da Eros, che è la prima delle divinità (B 13) perché determina la congiunzione reciproca di maschio e femmina (B 12 4–5) nonché l’unione dei loro semi, dalla cui capacità di congiungersi

armoniosa-8 Si veda χρὴ (è necessario): B 6 1; cfr. B 2 5; cfr. ἀνάνκη (necessità): B 8 16; B 8 30; cfr. Μοῖρ[α] (Sorte):

B 8 37.

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mente invece che di entrare in reciproca lotta dipende se la natura delle creature sarà ‘felice’ piuttosto che crudelmente tormentata (B 18 4–6).

L’essere è appunto lo stare necessariamente insieme dei differenti/opposti, il loro essere uno. E l’essere-uno dei differenti/opposti è innanzi tutto “il pensiero” (νόημα), il quale costituisce “il pieno” (τὸ […] πλέον: B 16 4); essendo la pienezza anche il segno della compiutezza, cioè della perfezione (τετελεσμένον, cioè compiuto: B 8 42)10 che

caratterizza la ben rotonda sfera (B 8 43) dell’essere parmenideo. Non a caso, del resto, “pensiero ed essere sono lo stesso”, come recita il celeberrimo frammento 3 (cfr. B 8 34–36). La pienezza del pensiero consiste nella sua capacità di comprendere l’essere in quanto completo di tutti gli opposti: “tutto è ugualmente pieno di luce e di notte oscura, ugua-li ambedue”, appunto perché, come già riportato, “con nessuna delle due c’è il nulla” (B 9 3–4).

Così, il sapere autentico è quello che comprende la ‘verità’ dei nomi che i mortali hanno dato a ciascuna delle cose e dei fenomeni della natura per distinguere ciascuno di questi dagli altri (B 19 3); e la verità dei nomi non è quella che contrappone i loro porta-tori mediante un’opposizione di tipo ontologico (essere / non essere) ma è invece quella che ne vede la reciproca connessione.

In questo senso pare ragionevole l’ipotesi interpretativa di Giovanni Cerri che vede nella filosofia parmenidea l’estensione universale del metodo scientifico caratterizzato dal fatto che quelli che nell’opinione dei mortali si presentavano come due oggetti contrap-posti e indipendenti, dal punto di vista della verità scientifica si sono invece palesati come uno stesso ente: la stella del mattino (Fosforo) e quella della sera (Vespero), che nell’o-pinione corrente non erano lo stesso oggetto, dal punto di vista della verità scientifica si sono rivelate invece come il medesimo corpo celeste: quello che chiamiamo Venere11;

e la luce della luna, che nell’opinione dei mortali non è quella del sole, in realtà è sempre la stessa luce solare riflessa dal nostro pianeta (cfr. frammento 14).

2. La verità dell’opposizione

Tutto chiaro e pacifico, dunque? Sì, ma nella misura in cui l’opposizione ontologica regge; perché è su di essa che si fonda interamente l’interpretazione proposta, la quale si basa appunto sulla differenza tra l’opposizione ontologica (quella tra l’essere e il non essere) e quella ontica (quella che oppone e differenzia tra di loro i vari enti, ciascuno dei quali si oppone però al nulla).

Ma l’opposizione ontologica è una figura che, come ho mostrato altrove12, è tutt’altro

che pacifica e scontata. La difficoltà fondamentale consiste in questo, che tale

opposizio-10 Cfr. B 8 32: οὐκ ἀτελεύτητον (non senza compimento), e B 8 33: οὐκ ἐπιδευές (non manca di nulla). 11 Cerri (1999: 41 e 55).

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ne si presenta essa stessa come essenzialmente contraddittoria; perché è un’opposizione definita dal fatto che uno dei due poli in cui essa consiste non può esistere, così che essa non può costituirsi davvero come opposizione, e quindi non può esistere neppure essa.

Qualsiasi tentativo di sanare tale aporia risulta insoddisfacente, sostanzialmente perché, se l’opposizione ontologica è tra l’essere e il suo opposto, allora si viene o a enti-ficare il non essere o ad annullare la stessa opposizione ontologica, in entrambi i casi generando una contraddizione; e se invece – per evitare tale contraddizione – si dice che l’opposizione è tra due forme di essere (per esempio tra l’essere e il pensiero del non esse-re, pensiero che è pur sempre un essente) allora l’affermazione dell’essere viene a perde-re la propria immediata innegabilità, perché questa è legata appunto al fatto che la sua negazione non può esistere e quindi non è possibile ‘scegliere’ tra due vie diverse. Se invece è possibile una scelta alternativa a quella della via parmenidea, allora l’opzione a favore di questa va giustificata, cosa che però dà il via a un processo di fondazione che va all’infinito, sollevando in tal modo una serie di problemi dai quali il pensiero filosofico, a distanza di duemilacinquecento anni, fatica ancora a riemergere.

Qui vorrei sintetizzare il punto fondamentale nel modo seguente13. L’opposizione

ontologica è definita dal fatto che uno dei due poli – cioè il non essere, contrapposto all’essere – non esiste, non può esistere. Ma questo vuol dire che l’essere è ciò di cui non vi è negazione, ciò rispetto a cui non vi è qualcosa di negativo, intendendo con questo termine tutto ciò che si oppone in maniera escludente a qualcos’altro. Della luce vi è l’op-posto/negativo (le tenebre) e viceversa, ma rispetto all’essere non vi può essere qualco-sa che ne costituisca il negativo; e quindi l’essere è ciò che, non avendo negativo, non

è negativo.

Ma proprio in questa semplicissima definizione (L’essere non è negativo), apparen-temente del tutto indiscutibile e ‘innocua’, si annida la peggiore delle difficoltà. Perché dire che l’essere è ciò di cui non vi è il negativo equivale a dire che l’essere si contrappone a tutto ciò che costituisce il negativo (tutto ciò di cui invece vi è il negativo)14. In quanto

contrapposto al negativo l’essere è non-negativo; ma quindi esso è negativo nei confronti del negativo, e in quanto tale viene a sua volta ad essere negativo. È insomma proprio in quanto non-negativo che l’essere viene ad essere negativo. Il fondamento del discorso parmenideo, cioè la singolare opposizione ontologica per la quale uno dei due poli non esiste, si rivela essere una clamorosa contraddizione.

Questa peculiare ma decisiva circostanza teorica risulta confermata in maniera del tutto immediata ed evidente anche da un punto di vista semplicemente linguistico.

13 Chi volesse approfondire la linea di pensiero cui si fa qui riferimento può vedere i miei scritti, e in

parti-colare: Tarca (1994, 2001, 2004, 2006) e Màdera e Tarca (2003).

14 Se, appunto, chiamiamo “negativo” tutto ciò di cui vi è un opposto escludente, possiamo dire che la luce

è un negativo (rispetto alla tenebra), il pari è un negativo (rispetto al dispari), il maschio è un negativo (rispetto alla femmina), e per converso la tenebra, il dispari e la femmina sono a loro volta dei “negativi”. Ebbene, proprio questo carattere è quello che non può competere all’essere; appunto perché, se di esso vi fosse il negativo, allora si darebbe la contraddittoria situazione per la quale il non essere sarebbe.

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Prendiamo in considerazione la formula che dice: “Il negativo del negativo è negativo”. Tale formula, sulla quale da anni invito a meditare, afferma semplicemente che tutto ciò che è negativo rispetto a qualcosa che è a sua volta negativo resta comunque qualcosa di negativo. Benché questa formula a prima vista appaia quasi l’opposto della celeberrima formula che Hegel presenta come il cuore del sapere filosofico, cioè l’affermazione per la quale “il negativo è insieme anche positivo”15, in realtà essa è pienamente compatibile

con il principio hegeliano, ed è anzi, almeno da un certo punto di vista, complementare rispetto ad esso. È ben possibile, infatti, che qualcosa che è negativo sia anche positivo, e addirittura che tutto ciò che è negativo sia insieme anche positivo; ma il punto è che, persino se si riesce a dimostrare questo, resta comunque fermo che ciò che è negativo resta anche negativo. Per esempio, è ben possibile che una sostanza tossica abbia un effet-to positivo sulla salute del corpo (in effetti molti medicinali hanno questa caratteristica), e pur tuttavia essi restano comunque tossici (anche-tossici), cioè negativi (anche-negativi).

Il problema dunque è che, nella misura in cui l’essere va pensato come il non negativo in generale, esso stesso si presenta come una nozione contraddittoria. La verità parme-nidea, espressa nel verso 3 del frammento 2, consiste, data la seconda metà del verso, in una immane contraddizione.

Si è soliti pensare che la contraddizione parmenidea trovi la propria risoluzione nella filosofia platonica, in particolare nel Sofista e precisamente nei passi in cui viene compiu-to il cosiddetcompiu-to “parricidio” (Soph. 241 d 3) nei confronti appuncompiu-to del ‘padre’ eleate (Soph. 237 a 2 – 259 d 8, in particolare 255 e 8 – 256 e 3). Si può, inoltre, ritenere che il

Parme-nide costituisca il dialogo nel quale Platone compie una sorta di reductio ad absurdum

della logica parmenidea, quella basata sulla negazione assoluta, la negazione che costi-tuisce l’esclusione totale di ciò che viene negato. Il Parmenide rappresenterebbe infatti la dimostrazione che tale logica – applicata ai temi filosofici, nella fattispecie alla questio-ne se l’essere sia uno o molti – conduce a contraddizioni insanabili. Per esempio, la circo-stanza che l’Uno, in quanto negazione dei molti, significhi l’esclusione di ogni molteplici-tà comporta che, qualsiasi cosa venga detta dell’Uno, essa determina una contraddizione, perché, aggiungendo all’Uno un’altra proprietà (fosse anche solo quella di essere) lo si rende ‘duplice’, come mostra appunto la prima ipotesi del Parmenide (137 c 4 – 142 a 8). Ora, secondo la diffusa convinzione di cui si diceva, questo incontrollato dilagare delle contraddizioni parmenidee sarebbe sanato dall’interpretazione del non essere forni-ta da Platone nel Sofisforni-ta. Qui, infatti, si mostra che quando si parla del non essere non ci si riferisce all’opposto assoluto dell’essere (il μηδαμῶς ὂν: Soph. 237 b 7–8), ma solo al non essere relativo, ovvero a tutto ciò che è differente dall’essere; ciò che è differente dall’essere, infatti, non è l’essere, e in questo senso è non essere (Soph. 256 d 5–12). Così, dire che qualcosa è non essere non costituisce più una contraddizione, perché non vuol più dire che qualcosa che è essere non è, ma vuol dire semplicemente che qualcosa che

partecipa dell’essere, essendo diverso dall’essere, non è l’essere; nel senso (un senso che

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si affermerà proprio sulla base della svolta imposta dal Sofista) che non è identico all’es-sere, non coincide con esso.

Ma anche questo tipo di soluzione è colpito dalla contraddizione che caratterizza l’op-posizione del negativo e del non negativo, come ora vedremo. Fin tanto che la differenza viene pensata come una forma di negazione – come accade anche nella soluzione del

Sofista e in tutte le soluzioni che concepiscono la differenza come negazione dell’identità

dei differenti – resta fermo che ciò che differenzia un’entità da un’altra (e che perciò chia-meremo elemento differenziante) è qualcosa che deve appartenere a uno dei due differenti ma non può appartenere all’altro, non può cioè appartenere a entrambi16. L’elemento

differenziante è insomma elemento definitorio di uno dei due differenti (al quale dunque appartiene necessariamente), ed è invece escluso dall’altro differente (al quale quindi non può appartenere). Nel caso della differenza tra un’entità e il suo opposto negativo, l’elemento differenziante ciascuno dei due opposti coincide esattamente con la negazione dall’altro, cioè con l’esclusione totale di questo17; nel caso invece della differenza tra due

determinazioni che non sono l’una l’opposto-negativo dell’altra, l’elemento negativo-escludente costituisce una negazione parziale della determinazione differente18.

Ebbene, se applichiamo questa impostazione all’elemento che differenzia il negativo dal non negativo, vediamo che essa fallisce, perché in questo caso l’elemento differen-ziante viene ad essere qualcosa che appartiene a entrambi i poli dell’opposizione. Questo è immediatamente evidente nel caso dell’elemento che differenzia il non negativo dal negativo; tale elemento, infatti, in quanto definitorio del non negativo, è non negativo (e quindi appartiene al non negativo), ma in quanto è non negativo (cioè negativo del negativo) appartiene anche al negativo. In tal modo il tentativo di differenziare il non negativo dal negativo mediante la negazione della loro identità fallisce. Eppure negati-vo e non negatinegati-vo denegati-vono essere differenti tra di loro. Questo vuol dire che l’elemento differenziante il non negativo dal negativo – proprio per poter essere tale , cioè elemento differenziante – deve essere qualcosa di diverso dal suo (del non negativo) non essere identico al negativo (dal suo non appartenere al negativo, e poi in generale da tutto ciò che lo faccia essere un negativo); ma d’altro canto esso – essendo pur sempre l’elemento definitorio del non negativo (di ciò che non appartiene al negativo) – deve essere anche qualcosa di diverso dal negativo. Questo vuol dire che l’elemento che differenzia il non negativo dal negativo deve essere diverso tanto dal non negativo quanto dal negativo: in quanto è non negativo è diverso dal negativo, ma nello stesso tempo è più che non

nega-16 Per esempio la proboscide, nella misura in cui è definitoria dell’elefante, costituisce l’elemento

differen-ziante dell’elefante (poniamo rispetto al rinoceronte) in quanto non può appartenere a questo.

17 L’elemento che differenzia il non bianco dal bianco è la sua esclusione di tutto ciò che è bianco. 18 Questo è appunto il caso della differenza di cui si parla nel Sofista, dove il movimento è differente

dall’es-sere non perché costituisca l’esclusione totale dell’esdall’es-sere, ma perché esclude parte di ciò che definisce l’esdall’es-sere (fosse anche solo, questa parte, la proprietà di essere identico all’essere). Allo stesso modo, in generale, il bianco differisce dalla neve non perché sia totalmente incompatibile con essa, ma perché è incompatibili con una parte degli aspetti che la definiscono.

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tivo, perché fin tanto che resta semplicemente negazione del negativo appartiene al nega-tivo invece che all’elemento differenziante rispetto al neganega-tivo il quale di per sé dovrebbe appunto escludere il negativo19. Proprio in quanto differente tanto dal negativo quanto dal

non negativo, a tale elemento (l’elemento differenziante il non negativo dal negativo) do il nome di pura differenza. Essa è distinta dal non negativo, però fa tutt’uno con questo; perché quando si tenta di separarla dal non negativo mediante una differenziazione nega-tiva essa, proprio per ciò, viene a costituire qualcosa di negativo mentre dovrebbe essere qualcosa di non negativo. Ci veniamo così a trovare in presenza di una peculiare dualità per la quale si danno degli elementi (quali, in questo caso, il negativo, il non negativo e la pura differenza tra i due) che devono essere distinti l’uno dall’altro, ma che se vengo-no separati si rovesciavengo-no nel proprio opposto e riproducovengo-no ciascuvengo-no al proprio intervengo-no la medesima dualità20. Emerge qui dunque un modo del differire che è distinto da quello

che consiste nella negazione dell’identità dei differenti. Così, l’espressione “non negativo”

nomina esplicitamente il non negativo, ma proprio anche solo per fare questo deve signi-ficare pure un altro aspetto di ciò che essa nomina (cioè del non negativo), precisamente

quell’aspetto (la pura differenza) per cui il ‘nominato’, distinguendosi tanto dal non nega-tivo quanto dal neganega-tivo, si distingue pure da ciò che viene esplicitamente nominato (cioè da se stesso). Proprio per ciò tale aspetto resta taciuto nella nominazione del “non nega-tivo”, e viene quindi ad essere, dal punto di vista del negativo, qualcosa di innominato21.

Qui, però, non possiamo sviluppare ulteriormente questa tematica teoretica, della quale abbiamo enunciato solo i primi passi e per il cui approfondimento devo rimandare agli scritti indicati in Bibliografia. Ritorniamo dunque al Poema di Parmenide, ricor-dandoci però che l’essere parmenideo è proprio il non negativo, e che quindi quello che abbiamo detto del non negativo vale anche per l’essere di cui parla l’Eleate. Tutto questo ci consente ora una lettura nuova dei suoi versi. Si tratta di una lettura che non solo è teoretica (nel senso che ha di mira una questione teorica piuttosto che un accertamen-to fattuale-empirico relativo per esempio a ciò che poteva avere in mente una persona vissuta a Elea duemilacinquecento anni fa), ma poi è anche tale che, piuttosto che tentare di definire in maniera esclusiva un problema e la relativa soluzione, si limita a presentare possibili implicazioni concettuali del discorso parmenideo, implicazioni che tra l’altro

19 Si badi che non sto dicendo semplicemente che un differente deve essere, oltre che non identico a ciò da

cui differisce, anche dotato di altre proprietà; sto dicendo invece che è proprio per essere differente da ciò da cui si differenzia che il non negativo deve essere altro rispetto al suo non essere identico a ciò da cui differisce (e in generale altro rispetto a tutto ciò che è negativo). Non sto dicendo, insomma, che la casa, per essere diversa dalla pianta, deve essere, oltre che non identica alla pianta, anche dotata di proprietà positive (avere una porta, un tetto etc.), sto invece dicendo che è proprio il suo essere diversa dalla pianta che deve essere qualcosa di diverso dal suo non essere identica alla pianta, (oltre che, naturalmente, qualcosa di diverso dalla pianta).

20 Per nominare questa singolare dualità uso a volte la formula “L’altro del non negativo”, a indicare appunto

il fatto che si tratta di qualcosa che fa tutt’uno con il non negativo pur distinguendosi rispetto ad esso.

21 Si può fornire una prima immagine di tutto questo dicendo che il non negativo è la totalità del negativo

(totalità che indicheremo con l’espressione “Negativo”, con la maiuscola), la quale, in quanto è (l’)Intero, è, rispet-to al Negativo (cioè rispetrispet-to a se stesso), negativo del negativo.

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– questo va adeguatamente sottolineato – sono in gran parte del tutto implicite nel suo discorso e quindi forse pure inconsapevoli, almeno in un qualche senso del termine.

3. La via della pura verità

Richiamandoci ai tratti che abbiamo visto caratterizzare il non negativo, possiamo allora incominciare a dire che il pensiero autentico dell’essere (in quanto non negativo) deve comprendere la consapevolezza che il discorso che lo nomina come non negativo in realtà

tace l’aspetto caratteristico e proprio dell’essere, tace ciò che lo definisce e lo

determi-na rispetto agli enti; tace insomma quella che in linguaggio heideggeriano potremmo chiamare l’autentica differenza ontologica. Ora, se l’opposizione ontologica (parmeni-dea) dell’essere e del nulla si rivela essere, in quanto negativa, contraddittoria, allora una prospettiva ontologica che voglia essere diversa da una contraddizione deve essere basata su un principio puramente positivo diverso da quello enunciato mediante l’opposizio-ne parmenidea. Ciò vuol dire che la verità filosofica ‘nominata’ l’opposizio-nel Poema parmenideo deve distinguersi pure dalla verità enunciata nel celeberrimo verso 3 del frammento 2, in quanto questa, nella sua seconda metà, definisce l’essere come negazione del non essere, cioè come non negativo. La via della verità si distingue dunque dalla via della negazione del non essere, e si presenta quindi come “pura verità”. Questa consente di distinguere la verità dell’essere dalla negazione del non essere, e si distingue dunque da quella che consiste nell’opposizione dell’essere e del non essere.

Ciò vuol dire che il vero essere va distinto pure dall’essere che si oppone al non essere. Il vero essere si distingue, mediante una pura differenza, dall’essere-in-quanto-opposto-al-non-essere. Ma allora ciò significa che anche il significato del termine “essere”, in

quan-to quesquan-to sia pensaquan-to come opposquan-to al non essere, va distinquan-to dal puro significaquan-to dell’essere,

e va dunque anch’esso considerato, proprio per ciò, un semplice nome. Anche “essere” e “non essere”, in quanto pensati come poli di una opposizione, sono semplicemente nomi dell’essere. Ecco ‘spiegato’ quanto viene detto nei versi dai quali abbiamo preso l’avvio (B 8 37–41), ed ecco quindi ‘risolta’ la relativa difficoltà.

Ma questa ‘soluzione’ in realtà è essa stessa l’apertura di tutta una serie di proble-mi, perché ha conseguenze inattese e addirittura destabilizzanti. Tanto sorprendenti sono, tali conseguenze, che consentirebbero addirittura di fornire una risposta plausi-bile a un problema testuale che non riusciamo nemmeno a scorgere perché, ove fosse anche solo visto, porrebbe una difficoltà assolutamente non risolvibile al di fuori di una svolta di pensiero radicale. Mi riferisco al problema che si manifesta palesemente – senza peraltro essere notato – nel verso 3 del frammento 6:

È necessario il dire e il pensare che l’essere è: infatti l’essere è, nulla non è; queste cose ti esorto a considerare.

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E dunque da questa prima via di ricerca ti tengo lontano, […]22

Ora, stando a una lettura pedissequamente letterale del testo, o – se si preferisce – a una lettura praticamente ottusa di esso, sembrerebbe di dover dire che la Dea invita Parmenide ad allontanarsi da quella che però è proprio la via della verità. Infatti la via di cui si parla nei versi 1 e 2 di questo frammento è quella che dice “l’essere è, nulla non è”; ma se questa è la via dalla quale la Dea ci allontana, allora Ella ci diffida dall’imboccare proprio la via parmenidea della verità: quella che oppone l’essere al non essere. L’ipo-tesi è talmente destabilizzante che, appunto, non viene nemmeno considerata come un problema, perché il testo viene automaticamente ed immediatamente letto in un senso opposto a quello che possiede alla lettera, cioè come se esso condannasse la via (la che afferma che “non è e che è necessario che non sia”: B 2 5) che è opposta a quel-la che è appena stata enunciata. Il passo, insomma, viene interpretato come se dicesse il contrario esatto di quello che dice... Naturalmente questo rovesciamento appare del tutto corretto, stando al senso complessivo normalmente attribuito al pensiero parme-nideo. Il punto è però che, alla luce di quanto abbiamo osservato circa l’opposizione dell’essere e del non essere, sembrerebbe più corretto prendere alla lettera il testo, cioè interpretarlo come se la Dea ci invitasse davvero ad allontanarci persino dalla via che oppone l’essere al non essere. Ciò sarebbe corretto, e quindi giusto (del resto qui la divi-nità è Dike, Dea della giustizia), perché la piena testimonianza della verità dell’essere esige che si prendano le distanze persino da quella che è stata presentata come la via della verità, almeno nella misura in cui essa resta la via dell’opposizione dell’essere e del non essere, dal momento che questa si è rivelata essere l’opposizione tra due nomi.

Sia chiaro, non sto sostenendo che la lettura letterale (ovvero ottusa) di questi versi sia quella corretta, e che si debba quindi dare un’interpretazione completamente nuova del pensiero parmenideo, praticamente opposta a tutto quello che è stato detto finora. Chi proprio volesse avventurarsi per questa strada potrebbe incominciare con l’osser-vare che il termine che sancisce la condanna della Dea (εἴργω = tengo lontano) è una interpolazione, ed è quindi il frutto di una interpretazione che almeno in linea teorica potrebbe essere messa in questione. Tuttavia sulla base di quel poco che posso accertare credo di poter dire che questa sarebbe una strada molto “ardua” da seguire (praticamente impercorribile, come quella del non essere ...), e comunque non è quella lungo la quale intendo ora incamminarmi. Né intendo sostenere che la via della verità che viene tradi-zionalmente attribuita a Parmenide, cioè la via che oppone l’essere al non essere, ancorché valida a livello interpretativo, sia errata dal punto di vista teoretico. Voglio però osservare che le questioni che qui si pongono richiedono comunque una rilettura radicale del tema dell’opposizione dell’essere e del non essere e quindi del senso complessivo del discorso parmenideo. Non sto, insomma, affermando che la verità dell’essere possa (o addirittu-ra debba) prescindere dall’opposizione essere/non essere; sto invece dicendo che tale

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opposizione, per essere qualcosa di diverso da una contraddizione, deve introdurre una distinzione tra due diversi sensi dell’opposizione e quindi tra due diversi sensi della nega-zione (e perciò pure dell’esclusione). Per compendiare in poche battute un problema così complesso e delicato, potrei esporlo nel modo seguente.

L’espressione che esprime la seconda metà della verità parmenidea, cioè “non è non essere [οὐκ ἔστι μὴ εἶναι]” (B 2 3)23, contiene due negazioni, entrambe riferite

all’es-sere24. Esse – anche per questa duplicità, ma non solo – celano al proprio interno un

complesso assai variegato di aspetti, i quali danno luogo a un groviglio quasi inestricabile di questioni teoriche. Per venire a capo delle difficoltà che queste pongono bisogna distin-guere questi vari aspetti25, ma proprio questo è il problema, proprio questa è la difficoltà

principale.

Per chiarire il punto proviamo a riformulare la verità parmenidea presentandola come la negazione del non essere, cioè come la negazione della negazione dell’essere. Ora, la negazione dell’essere (il “non essere”) è un’entità che costituisce essa stessa un’esem-plificazione (un’individuazione) dell’ambito che peraltro essa nega; infatti la negazione

di ogni cosa è qualcosa (di qui la forza invincibile del discorso filosofico che si inaugura

con Parmenide, quello cioè basato sulla verità elenctica, innegabile perché persino chi intendesse negarla sarebbe costretto ad affermarla). Quindi l’ambito che la negazione dell’essere costituisce (determina) include qualcosa; ma, in quanto tale ambito (il non essere) è definito come quello che esclude ogni cosa, esso esclude anche ciò che include. La negazione dell’essere costituisce dunque un’entità che contemporaneamente include ed esclude qualcosa (la stessa cosa). Per parlarne in maniera coerente bisogna quindi come minimo distinguere i differenti sensi secondo i quali lo stesso viene rispettivamente incluso ed escluso mediante tale negazione; anche se questo si rivela un compito assai più arduo di quanto si possa immaginare a prima vista26.

Per quanto riguarda poi l’altra negazione (cioè la negazione della negazione che abbiamo ora considerato), ovvero la negazione del non essere (negazione della negazio-ne dell’essere), la quale costituisce la verità filosofico-parmenidea (“non è non essere”), a sua volta essa determina un’entità (un ambito, un campo, uno spazio) che esclude

qual-23 Cfr. μηδὲν δ᾽ οὐκ ἔστιν (B 6 2). Preferisco conservare qui la peraltro legittima traduzione letterale invece

di quella prevalente che suona “non è possibile che non sia”.

24 Per la precisione: la prima è riferita allo “è” (ἔστι), la seconda allo “essere” (εἶναι).

25 Può essere interessante osservare che la Dea usa οὐ in un caso, e μὴ nell’altro; e lo stesso accade anche

nelle formule utilizzate in B 6 2.

26 Per esempio si potrebbe dire che ciò che viene negato con la formula οὐκ ἔστι non è l’esserci della

nega-zione dell’essere, ma qualcos’altro; in particolare, sfruttando proprio la circostanza che la particella negativa “μὴ”, in greco, rappresenta qualcosa di soggettivo, a differenza di οὐ, che rappresenta invece qualcosa di oggettivo,

si potrebbe ipotizzare che ciò che viene negato è l’avere contenuto, o l’avere valore, da parte della negazione dell’essere. Ma anche in questa ipotesi bisognerebbe comunque ammettere una dualità, interna al “non essere”, tra il non essere in quanto non può esserci, perché altrimenti ci sarebbe proprio il non essere, e il non essere in quanto invece deve esserci (non può non esserci), perché è ciò che costituisce l’oggetto della negazione verace da parte della verità dell’essere (se anche tale oggetto, infatti, fosse nulla, non ci sarebbe nemmeno la negazione del nulla e quindi nemmeno la verità dell’essere che in tale negazione consiste).

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cosa (ciò che essa nega); ma, siccome ciò che essa nega è ciò che non è (ovvero il non essere), tale spazio non può escludere alcunché. O, per converso, siccome l’ambito che essa definisce (quello del non-non-essere, cioè dell’essere) include ogni cosa, esso include pure ciò che esclude (comunque questi – cioè l’escluso e la relativa esclusione – debba-no essere intesi). Anche qui abbiamo dunque una negazione che esclude e debba-non esclu-de qualcosa, una negazione che contemporaneamente incluesclu-de ed escluesclu-de la stessa cosa. Di nuovo, quindi, per formulare in maniera coerente tale verità bisogna come minimo distinguere i differenti sensi secondo i quali lo stesso viene rispettivamente escluso ed incluso mediante tale negazione.

Ci troviamo dunque in una situazione nella quale ogni negazione si sdoppia in un aspetto includente e in uno escludente, generando in tal modo una contraddizione, perché l’uno esclude proprio ciò che l’altro include, e viceversa. È indispensabile, per venire a capo di questo problema e delle relative aporie, distinguere coerentemente i diversi aspetti. Ma come fare? Qui, infatti, ogni negazione si sdoppia in due aspetti che appaiono essere in reciproca contraddizione; bisogna dunque distinguere i due sensi secondo i quali lo stesso viene rispettivamente affermato e negato; ma, appunto, come distinguere gli aspetti interni alla negazione? La difficoltà, in particolare, è questa: se ogni differenza è una negazione, e cioè ogni differenziazione costituisce un’opera-zione di negaun’opera-zione, allora ogni differenza introdotta per risolvere le contraddizioni generate dalla negazione riproduce la negazione e quindi ripresenta il problema. In tal modo la soluzione resta rimandata all’infinito e quindi viene resa impossibile. Insomma, se il problema è interno alla negazione, e se ogni differenza produce una nuova negazio-ne, allora qualsiasi distinzione venga introdotta per risolvere la contraddizione riprodu-ce il problema che si trattava di risolvere. Il culmine della difficoltà si palesa quando ci si rendo conto che, anche se – per risolvere questo problema – si volesse dire che la diffe-renza non implica la negazione (o che vi è una diffediffe-renza che non implica la negazione), proprio così facendo si verrebbe a dire che tale differenza, non essendo negativa, è non negativa, ma quindi è negativa nei confronti della negazione, negativa nei confronti del negativo. Ecco una delle ragioni che mi hanno indotto a introdurre la nozione di pura

differenza cui sopra ho fatto cenno, la cui autentica comprensione, peraltro, richiede un

esercizio teorico radicale e continuo. Insomma, la negazione dell’essere porta alla luce il problema posto dalla negazione, ed evidenzia il fatto che la sua soluzione (cioè la distin-zione degli aspetti interni alla negadistin-zione) esige una logica diversa da quella che io chiamo della differenza-negazione o della determinazione-negazione.

Il problema che qui si sta ponendo costituisce uno dei nodi centrali del pensiero filo-sofico, anche se raramente a tale problema è stata riservata l’attenzione che esso merita. Si potrebbe però osservare, tanto per dare una prima idea della portata che ha la presente questione, che la dualità che caratterizza la verità parmenidea potrebbe essere vista come un’anticipazione della posizione hegeliana (posizione che peraltro costituisce il cuore stesso del pensiero di Hegel, come dimostra il fatto che essa si trova collocato in una posi-zione strategica, cioè nell’Introduposi-zione alla Scienza della logica) per la quale ogni nega-zione dell’essere si rivela essere, in verità, la neganega-zione non dell’essere, ma la neganega-zione

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di qualcosa di determinato, la negazione di un ambito specifico dell’essere: la negazione

determinata, appunto27.

Ma proprio il richiamo a Hegel ci consente di scorgere pure le difficoltà insite in questa semplice affermazione. Se assumiamo che l’identità dell’essere e del nulla, la quale costituisce l’atto di nascita del sistema hegeliano (la famosa prima triade della Scienza

della logica), risulta dimostrata dal fatto che tanto l’uno (l’essere) quanto l’altro (il nulla)

sono negazione di ogni ente determinato, allora resta qui trascurata la decisiva circostan-za che il primo è affermazione (sia pure indeterminata) di ogni essente, mentre il secondo è negazione (altrettanto indeterminata) di ogni essente. Resta insomma trascurata la deci-siva differenza tra il modo in cui l’essere si differenzia da ogni essente rispetto al modo in cui se ne differenzia il nulla.

Quello che voglio osservare – ma la questione qui può essere solo accennata – è che si pone a questo proposito la questione, filosoficamente decisiva, di determinare

esatta-mente la differenza tra il modo in cui l’essere differisce dall’ente dal modo in cui il nulla

differisce dall’ente, e qui il riferimento (anche critico) a Heidegger è inevitabile. Ovve-ro – e ora la questione è leggermente differente ma il nodo teorico è lo stesso – si tratta di distinguere esattamente, all’interno della ‘opposizione’ tra l’essere e il nulla, la nega-zione rivolta contro l’essere dalla neganega-zione rivolta contro la neganega-zione dell’essere. Qui il riferimento è principalmente alla ripresa del pensiero di Parmenide compiuta da Emanuele Severino, e alla soluzione da lui proposta dell’aporia del nulla28. Per quanto

riguarda il discorso qui svolto, comunque, la domanda cruciale mi pare essere: come si fa a risolvere mediante una proposizione negativa il problema di tale distinzione, cioè di una distinzione interna alla stessa negazione? Ovvero, se ogni distinzione comporta una negazione, come si fa a operare una distinzione all’interno della negazione senza

ripro-durre il problema? Se ogni negazione istituisce una duplicità (a questo livello

contrad-dittoria), come distinguere la duplicità insita nella negazione mediante una negazione? E se ogni differenza è una negazione, come distinguere i due differenti aspetti della nega-zione (si tratta infatti di una dualità) senza istituire una neganega-zione e quindi senza ripro-durre il problema? Non costituisce, ogni soluzione che resti all’interno della prospettiva che possiamo chiamare “negativa”, un’automatica riproposizione del problema? Come definire dunque le differenze interne alla negazione mediante una logica negativa, cioè mediante proposizioni che contengono negazioni? Ma, d’altro canto, come evitare di fare ciò, dal momento che anche una posizione che non contenesse negazioni conterrebbe almeno questa negazione? È appunto a tale ampio giro di questioni che le riflessioni che svolgo attorno alla nozione di pura differenza si propongono di dare una risposta.

Si vuole forse, con tutto questo, dire che la via indicata da Parmenide nel suo Poema non è la via della verità? Quello che si vuole dire è che quella ‘nominata’ nel Poema è davvero la via della verità, ma la verità di cui qui si tratta è la verità del negativo; nel

27 Hegel (1968b: 36).

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senso che ciò che resta testimoniato (cioè esplicitamente posto) mediante la sua parola è il lato negativo della verità dell’essere. Quello propriamente positivo resta in ombra, almeno fino a che non si porti alla luce il suo puro differire rispetto al lato negativo. La compiuta testimonianza della verità esige che la verità venga distinta anche da quel suo particolare aspetto che è costituito dalla verità del negativo; ma tale distinzione può essere compiuta solo grazie a quella particolarissima forma del ‘distinguere’ alla quale allude la pura differenza.

Dovrebbe essere chiaro, e comunque lo ribadisco esplicitamente: non sto dicendo che il verso 3 del frammento 6 vada inteso nel senso che la Dea inviterebbe Parmenide ad allontanarsi dal discorso che oppone l’essere al non essere; ritengo infatti assolutamente verosimile che lì il testo parmenideo si riferisca proprio alla via che identifica l’essere e il non essere, esattamente come esso è stato sempre interpretato. Ma il punto è che, in base a quanto abbiamo visto, è la stessa via che contrappone l’essere al non essere a identificare, proprio così facendo, l’essere e il non essere (il non negativo e il negativo), almeno sin tanto che trascura le distinzioni interne alla negazione, e quindi in partico-lare la decisiva distinzione tra la differenza e la negazione. Sicché nella ‘problematici-tà’ che emerge dalla lettera di questo passo resta testimoniata (anche se verosimilmente in maniera involontaria, quindi non esplicita e perciò in qualche misura inconsapevole) proprio quell’implicazione teorica della verità che il Poema di Parmenide nasconde nel momento stesso in cui la porta alla luce.

L’implicita evocazione della distinzione tra la via della verità dell’essere e quella delle negazione del non essere ritorna, ancora con le stesse modalità implicite (quindi in qual-che modo, da capo, non del tutto consapevoli), nei primi due versi del frammento 8: “Resta solo un discorso della via: [/] che “è” […]”. Stando alla lettera, qui si dice che l’unica via che resta è quella che afferma “che è”. Tutto ciò che resta, insomma, è – alla lettera – solo la prima metà del fatidico verso 3 del frammento 2; la seconda metà, qui, non viene riprodotta. Vuol forse dire, questo, che la parte negativa della verità è stata cancellata e che il pensiero di Parmenide va riletto in questo senso? Tutt’altro; perché subito dopo Parmenide, nell’illustrare i tratti (σήματ[α]) che caratterizzano tale via (B 8 2), li presenta definiti proprio dal carattere ‘negativo’ tipico appunto della via ‘oppositiva’ presentata nella seconda metà del verso 3 del frammento 2. L’essere, che è οὐλομελές, cioè “intero nel suo insieme”, è per ciò stesso ἀγένητον (non generato), ἀνώλεθρον (non perituro), ἀτρεμὲς (non mobile) e ἀτέλεστον (non finito), come si legge in B 8 3–4; esso non era e non sarà (B 8 5), e così via.

La ‘negatività’ di questi caratteri è quella tipica della doppia negazione che compare nella seconda metà di B 2 3: “non è non essere”; infatti i tratti che vengono negati (genera-to, perituro, mobile, finito) sono appunto dei tratti ‘negativi’. Anche se non possiamo qui approfondire tale questione, è però evidente il rischio nichilistico implicito nel carattere ‘negativo’ che siffatto discorso possiede: vengono qui negati – come se fossero il nulla –

dei tratti che costituiscono caratteristiche proprie dell’essere: il generarsi delle cose fini-te, il loro variare e in generale il loro divenire. Ma non era proprio questo l’errore tipico dei mortali, cioè quello consistente nell’identificare alcuni aspetti dell’essere con il non

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essere? E non sono forse il nascere e il perire aspetti dell’essere? Non esige, la stessa veri-tà parmenidea compiutamente esplicitata, l’accoglimento al suo interno anche di questi aspetti dell’essere?

Se così è, allora tale verità compiuta richiede pure che la verità dell’essere sia distinta dalla negazione della negazione dell’essere. Mettere in questione l’equivalenza di quan-to affermaquan-to nella prima metà del verso 3 del frammenquan-to 2 con quanquan-to affermaquan-to nella seconda metà dello stesso verso significa rilevare la differenza tra il principio dell’essere (E) e il principio della negazione della negazione dell’essere (non-non-E). Ciò significa allora anche mettere in questione il principio per cui A = non-non-A. Ma questo, come si sa, è il fondamento del pensiero logico-razionale dell’Occidente; esso è infatti29 il

prin-cipio di non contraddizione che ne governa l’intera logica. Nella via della verità, l’identità di A va rigorosamente distinta dalla negazione della negazione di A, cosa possibile solo mediante la pura differenza.

La via della compiuta verità dell’essere esige dunque che si distingua l’essere dalla negazione del non essere. L’essere inteso nella sua piena verità va distinto dall’essere in quanto contrapposto al non essere. Ecco perché persino la parola che contrappone l’es-sere al non esl’es-sere costituisce semplicemente un nome al pari di tutti gli altri nomi che i mortali hanno attribuito alle varie opposizioni presenti in natura. Peraltro tutte queste opposizioni devono in qualche modo risultare vere all’interno della via della verità, come ci insegnano i celeberrimi (e dibattutissimi) versi conclusivi (il 31 e il 32) del frammento 1 (“Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono bisognava che veramen-te fossero, essendo tutveramen-te in ogni senso”) e come pare esserci confermato almeno dalle interpretazioni della seconda parte del Poema cui all’inizio abbiamo fatto riferimento. Dunque ciò deve valere anche per la peculiare opposizione tra l’essere e il non essere; anzi, in relazione ad essa deve valere in maniera del tutto particolare e in qualche modo privi-legiata, dal momento che in questo caso si tratta della peculiare relazione tra il positivo e il negativo, cioè di qualcosa che pare essenziale alla definizione stessa dell’essere, del positivo. Abbiamo dunque qui a che fare con un’opposizione singolare, in qualche modo eccezionale. Proprio per questo tale opposizione può essere chiarita solo se la distinzio-ne tra i due opposti viedistinzio-ne pensata distinzio-nella forma della pura differenza. La pura differenza, in particolare, tra l’essere (ciò che viene affermato nella verità dell’essere) e il suo nome ‘oppositivo’, ciò che esso rappresenta in quanto polo contrapposto alla sua negazione:

la negazione dell’essere.

Torna qui dunque, con l’apparire del nome dell’essere, l’“enigma” di B 8 40, quello con cui abbiamo aperto questo scritto. Ma ora esso appare in una nuova luce: anche l’essere (εἶναι) in quanto sia contrapposto al non essere (τε καὶ οὐχί) è un semplice nome; anch’esso va dunque rigorosamente distinto dalla piena verità dell’essere; ma pure esso,

29 Con le precisazioni sulle quali dobbiamo qui sorvolare, per esempio per quanto riguarda la possibile

differenza tra i due lati (“A → non-non-A” e “non-non-A → A”) che costituiscono la doppia implicazione in cui consiste l’equivalenza logica “A ↔ non-non-A”.

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correttamente inteso, appartiene a questa piena verità, perché essa è tale (cioè piena) proprio in quanto è ricca pure della totalità del negativo, compreso dunque quel para-dossale e contraddittorio negativo che è il non negativo.

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Opposition and Truth: Parmenides’ Enigmatic Way

In Parmenides’ B 8 37–41, we find a question that raises a difficult prob-lem: how can Parmenides handle the opposition between “being and not” (i.e. being and not being) in the same way as the oppositions which characterize the mortals’ opinions? This question is especially relevant for answering the following theoretical question: how do we to treat the fundamental philosophical question of oppositions at large? To answer these question we need to reinterpret some major points of Parme-nides’ thought: the second part of his poem, but also the identification of πέλειν and εἶναι in B 6 8, as well as other passages of the poem. But, above all, the question makes us introduce some distinctions within the concept of negation and, consequently, between difference and nega-tion. This allows us to distinguish the affirmation of the truth of being

L U I G I V E R O T A R C A

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from the negation of the negation of being (i.e. the negation of non-being). This distinction has a major philosophical relevance, as can be seen by referring it to such thinkers as Plato, Hegel and Heidegger.

Parmenides, not-being, negation, difference, truth of being, negation of non-being.

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