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View of On Gorgias’ Particular Demonstration

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Academic year: 2021

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La « Dimostrazione

propria » di Gorgia

MARIAN WESOŁY / Poznań /

καὶ πρὸς Παρμενίδην δὲ ὁ αὐτὸς τρόπος τῶν λόγων, καὶ εἴ τινες ἄλλοι εἰσὶν ἴδιοι·

Aristotele, Phys. 186a22

μετὰ τὴν πρώτην ἴδιον αὐτοῦ ἀπόδειξιν, ἐν ᾗ λέγει ὅτι οὐκ ἔστιν οὔτε εἶναι οὔτε μὴ εἶναι. ... ... .... οὗτος μὲν οὖν ὁ αὐτὸς λόγος ἐκείνου. MXG, 979a23-24; 33

Questo saggio è un rifacimento di precedenti nostre proposte interpretative sul tema in questione, con certe modifiche ed aggiunte1. In questa sede abbiamo strutturato il mate-riale in maniera un po’ diversa, basandoci innanzitutto sull’impostazione aristotelica

1 Desidero ringraziare cordialmente la dott.ssa Giuliana De Sandre (Padova), il prof. Danilo Facca (Varsavia)

per aver letto questo testo e aver corretto l’italiano. Inoltre vorrei ringraziare i professori Livio Rossetti (Perugia) e Guido Calenda (Roma) per avermi scritto il loro parere in questione. Un grazie particolare anche alla prof.ssa. Roberta Ioli (Bologna) per le correzioni e preziose indicazioni. Ovviamente resta la mia responsabilità per ogni errore e lacuna.

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sia testuale che problematica. Questa prospettiva, che conferma l’attribuzione di MXG allo Stagirita, potrebbe risultare per alcuni interpreti provocatoria e controversa, e per questo siamo aperti alla discussione. Nella Bibliografia citiamo la più recente letteratura critica, di cui  però non riportiamo tutti i risultati. Per maggior chiarezza ci limitiamo ad una concisa e coerente esposizione, quale risulta dai testi greci presi in considerazione e tradotti in modo talvolta un po’ diverso dal solito.

Il celebre retore e sofista Gorgia di Leontini (c. 485 – c. 375 a.C.) nel suo scritto intito-lato Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ ϕύσεως (Sul non ente, ovvero sulla natura), rovescia l’identità trinitaria dell’essere, del pensare e del dire, sostenendo contro Parmenide, in tre distinte argomentazioni, che «niente è», che «anche se [qualcosa] è, è inconoscibile», ed infine affermando che «anche se è ed è conoscibile, non è comunicabile ad altri» (MXG, 5–6; Adv. Math. VII 65–87). E non è certo un caso che tale titolo del suo scritto suoni come una sfida al titolo e contenuto del poema di Parmenide Sulla natura e forse, ancor più, voglia essere un capovolgimento del titolo dell’opera di Melisso Sull’ente o sulla natura. Quest’ultimo, in quanto sostenitore del monismo parmenideo, avrebbe elaborato la sua opera durante la 84 Olim piade (444-441 a.C.) e dunque nello stesso periodo nel quale Gorgia attendeva alla scrittura del suo originale lavoro (DK 30A4; 82A10).

Leggiamo la denominazione ‘dimostrazione propria’ (ἴδιος ἀπόδειξις, λόγος) nel testo diaporetico De Melisso Xenophane Gorgia (in breve MXG), secondo noi aristote-lico (si veda sopra il motto), sintetizzante la tesi gorgiana che «niente è» (οὐδέν ἐστιν). Queste poche frasi riassumono un determinato argomento, in cui possiamo distinguere la componente meontologica (il non ente è) e quella nichilistica (niente è). Diversamente dalla versione di Sesto Empirico, l’esposizione di MXG, che sembra più fedele all’origi-nale, ci permette di comprendere propriamente il contesto problematico in questione, la sfida verso l’argomento ontologico di Parmenide, come pure le allusioni posteriori in Platone e Aristotele riguardo alla nozione del non ente, connesso appunto da loro con la sofistica.

Cercheremo di dimostrare come l’argomento ontologico di Parmenide ed il conse-guente controargomento di Gorgia abbiano utilizzato in modo raffinato le espressioni ἔστιν ed εἶναι. Infatti Gorgia parte esattamente dalle premesse poste da Parmenide; lo spunto della «dimostrazione propria» si basa – nella sua parte meontologica e più fonda-mentale – sull’uso dell’«è» nella sua duplice accezione esistenziale e tautologica (iden-titaria), sovvertendo così il famoso divieto del grande Parmenide. Gorgia ha mostrato, contro questo divieto – parafrasando efficacemente la sua propria tecnica argomentativa – che «il non ente è».

In questo modo il perno del ragionamento di Parmenide consiste nell’affermazione che l’ente è poiché è identico a se stesso. Da ciò deriva la raffinata imitazione di Gorgia affermante che il non-ente è in quanto è identico a se stesso. Di seguito, l’argomento che afferma l’esistenza dell’ente uno e identico verrà reso analogo all’argomento median-te il quale viene dichiarata la corrispondenmedian-te esismedian-tenza del non-enmedian-te, il che porta come conseguenza finale alla negazione dell’esistenza sia del primo che del secondo, cioè al nichilismo ontologico.

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Pertanto nel caso dell’argomento ontologico di Parmenide e di quello meontologico di Gorgia abbiamo a che fare con un contesto di tale complessità che implicite a volte ci imbattiamo nel significato esistenziale di ἔστι, altre in quello di identità ed a volte persi-no in una loro sovrapposizione. Da ciò derivapersi-no conseguenze ontologiche dal carattere paradossale e sofistico. Nel Sofista di Platone, come anche nelle opere di Aristotele, sono presenti alcuni spunti che si collegano alla «dimostrazione propria» di Gorgia e che non sono stati finora sufficientemente esplorati ed adeguatamente interpretati. Ma soprat-tutto Aristotele ha cercato di sbrogliare questi paralogismi e paradossi mediante l’in-dicazione della polisignificanza dell’essere e la precisazione della funzione predicativa della copula.

1. «L’ente si dice in molti modi»

A fondamento di entrambe le argomentazioni, quella ontologica di Parmenide e quella meontologica di Gorgia, troviamo le stesse espressioni – ἔστιν ed εἶναι – le quali, grazie all’ulteriore impiego della negazione, danno origine ad un buon gioco verbale (sintatti-co e semanti(sintatti-co) dal carattere paradossale, che ha causato ai pensatori greci certe aporie concettuali. Si tratta in effetti dello stesso verbo ἔστιν, come anche del suo infinito e participio presente εἶναι e ἐόν, dalle quali, aggiungendo l’articolo neutro, si ottengono le corrispondenti forme sostantivali τὸ εἶναι e τὸ ἐόν, considerate del resto da Aristotele come equvalenti (Metaph. V 7)2. Cerchiamo di definire in primo luogo, in modo generale ed astratto, le varie funzioni di tali espressioni.

Nella struttura della frase semplice il solo verbo ἔστι può assumere in primo luogo un senso esistenziale, come esemplifica la formula (1) «x è», ovverosia «x esiste»; qui x è il soggetto della frase ed il verbo «è» non esprime una vera e propria predicazione ma solo la pura e semplice indicazione dell’esistenza di un oggetto il cui nome è x. Aristo-tele chiamava questo caso τὸ ἁπλῶς εἶναι / λέγεσθαι, l’essere o il dirsi simpliciter, che però viene solitamente tradotto «in senso assoluto». Va notato che analogo senso ἁπλῶς assume l’espressione (1) quando le venga applicata la negazione, come nella formula «x non è», ovverosia «x non esiste». Una netta distinzione sintattica del senso esistenziale del verbo εἶναι sembra, d’altra parte, alquanto problematica sulla base della lingua greca. In un suo secondo significato il verbo ἔστιν può esprimere l’identità nella predicazio-ne, come nella formula (2) «x è x». Applicandovi però la negazione singolare, in modo da ottenere «x non è x», si dà origine ad una certa difficoltà concettuale, in quanto tale uso della negazione non indica più l’identico quanto piuttosto il diverso (ἕτερον) o l’al-tro (ἄλλο). Tale particolarità, come vedremo, sarà utilizzata da Parmenide per sostenere

2 «È presumibile che Aristotele circa l’uso del linguaggio nel greco antico ne sapesse più di noi, come

è presumibile che Parmenide usasse il verbo «è» anzitutto col significato più diffuso nella sua lingua materna» (Berti 2011: 107).

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il proprio punto di vista, secondo il quale effettuare una negazione è in ogni caso erra-to, in quanto porta alla contraddizione e al non-ente. Nel tentativo di sciogliere questa difficoltà, Platone cerca di dimostrare nel Sofista che il «diverso» allo stesso modo che l’«identico» può legittimamente riferirsi ad espressioni contenenti il non-essere, in quan-to quesquan-to non è in contrapposizione all’essere ma piutquan-tosquan-to è relativo a sue particolari differenze. Tale soluzione si è rivelata alquanto significativa in quanto indicava la possi-bilità di precisare un modo fondamentale di utilizzare il verbo «è» in senso predicativo.

E per l’appunto nella sua terza accezione di significato il verbo ἔστι indica una vera e propria predicazione, come nella formula (3) «x è y», dove i termini x e y non sono iden-tici ma diversi. In questo caso l’applicazione della negazione οὐκ ἔστιν non conduce più ai paradossi derivanti dalla ontologia eleatica e concernenti il rapporto identico – diver-so, uno –molteplice e così via. In questo cadiver-so, infatti, abbiamo a che fare con la copula nella sua espressione più pura, precisata da Aristotele come l’asserire «qualcosa di qual-cosa» (τι κατά τινος). Lo Stagirita la esprimeva non solo mediante l’impiego di forme appropriate del verbo «essere – εἶναι», ma anche attraverso espressioni sinonimiche quali «predicarsi (o dirsi) di» (κατηγορεῖσθαι κατά / λέγεσθαι κατά) ο «appartene-re» (ύπάρχειν). All’interno della sua teoria delle categorie egli ha precisato la struttura sintattica e semantica di tale predicazione secondo le figure delle categorie (Wesoły 1984). Da un punto di vista sintattico può ancora essere distinto un uso del verbo ἔστιν secondo la formula (4) «x è in y», ma è facile vedere che esso non è altro che un caso parti-colare della predicazione sub (3). Aristotele intendeva questa predicazione come «il dirsi di qualcosa come essente in qualche altra cosa» (ἄλλο ἐν ἄλλῳ λέγεσθαι) e distingueva certi significati fondamentali di tale espressione (cf. Phys. IV 3), dove però il solo verbo ἔστιν viene sottinteso. Pertanto egli esclude la sensatezza di espressioni del tipo «x è in y» nel caso che x sia il nome di una qualche totalità.

Dobbiamo ancora menzionare due altre funzioni del verbo ἔστιν, e precisamente quando esso viene utilizzato per asserti enuncianti verità e esprimenti possibilità. Così, il verbo ἔστι può avere lo stesso significato veritativo di espres sioni del tipo (5) «qualcosa è vero», e il correlato οὐκ ἔστι di «qualcosa non è vero».

Inoltre, ἔστιν all’infinito origina la costruzione di periodi nei quali è possibile trova-re proposizioni come (6) «qualcosa è possibile» e corrispondentemente la negazione οὐκ ἔστιν con l’infinito in proposizioni quali «qualcosa non è possibile». In ogni caso, trascuriamo, però, le altre fun zioni di ἔστιν, in quanto ai fini di questo articolo sono già sufficienti le distinzioni indotte.

Bisogna infine ricordare che secondo le ricerche specifiche sul verbo εἶναι nel greco antico è difficile distinguere nettamente il suo senso esistenziale da quello predicativo (Kahn 2009). Aristotele non ha fornito all’esistenza uno statuto indipendente, in quanto,

secondo lui, ogni essere sostanziale è determinato grazie alla predicazione categoriale. La filosofia greca, del resto, non ha definito uno speciale concetto di esistenza, come anche non ha mai suggerito la triplice distinzione tra esistenza, identità e predicazione (la tricotomia di Frege), ma ha preso questi tre significati di εἶναι come equivalenti, anti-cipando in un certo qual modo le concezioni sulla copula fatte proprie dalla

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contempo-ranea teoria dei giochi semantici (Hintikka 1986). Pertanto sarebbe necessario rivedere la nostra consueta immagine dell’ontologia greca e della metafisica dell’essere, che trop-po spesso utilizza il concetto di «esistenza» in senso assoluto. Si lega a ciò innanzitutto il problema di una corretta traduzione dei testi nei quali si incontra il verbo εἶναι, per evitare di attribuire loro il significato, non noto ai Greci, di existere, il cui largo uso nelle lingue moderne viene dal tardo latino.

2. L’ argomento ontologico di Parmenide.

Nel frammento B 2 del poema di Parmenide Sulla natura si afferma che si possono pensa-re solo due vie di ricerca:

ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, Πειθοῦς ἐστι κέλευθος (᾿Αληθείηι γὰρ ὀπηδεῖ), ἡ δ’ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν (οὐ γὰρ ἀνυστόν) οὔτε φράσαις.

L’una come «è» e come non è [possibile] non essere, di Persuasione è il sentiero (infatti segue la verità); l’altra come «non è» e come è necessario non essere, questo, ti dichiaro, è un sentiero del tutto inindagabile: perché mai conoscesti il non ente (invero non è fattibile), né potresti esprimerlo.

Nella traduzione del succitato frammento abbiamo cercato di mantenerci fedeli all’o-riginale, almeno 1ì dove si incontrano i verbi ἔστιν ed εἶναι, conservando anche la sostan-tivazione del participio (τὸ ἐόν, ens, l’ente), in quanto l’argomentazione poggia proprio sul gioco di queste espressioni. Se rendiamo questo participio con tre parole in italiano - «ciò che è» (altrettanto nelle altre lingue moderne), ci sfugge quel gioco più conciso e sintatticamente raffinato qui in questione (p.e. la frase gorgiana τὸ ὄν ἐστι ὄν diventa letteralmente più comprensibile come «l’ente è ente» che nella versione «ciò che è è ciò che è»3. Pertanto nella traduzione non usiamo il verbo «esistere», anche se è questa l’ac-cezione che sembra prevalente. Senza prendere in considerazione le diverse

interpreta-3 A questo proposito Roberta Ioli ha una forte resistenza a tradurre to on con “l’ente”, perché il termine ente

ha in sé stratificazioni semantiche legate soprattutto alla dimensione ontologica: anche se meno elegante, crede che la resa del participio con “ciò che è” permetta di ritrovare tutte le sfumature del verbo einai.

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zioni del frammento B 2 di Parmenide4, proponiamo solo una concisa esegesi di quelle espressioni che hanno dato lo spunto alla dimostrazione propria di Gorgia.

Rivolgiamo l’attenzione alle intenzioni metodologiche delle argomentazioni parme-nidee. Si è discusso molto sul soggetto di ἔστιν e sulla modalità in questione: non possi-bilità di non essere e necessità di non essere. Evidentemente Parmenide ha sollevato il problema dell’ente nel suo aspetto metodologico basandosi sulle stesse caratteristiche sintattico-semantiche del verbo εἶναι e delle sue forme derivate. Si tratta esattamente di due metodi di ricerca dei quali il primo è percorribile e veritativo, mentre il secondo è del tutto imperscrutabile.

Nel successivo frammento B 3 leggiamo che «lo stesso è pensare (capire) ed essere», ed appunto ciò costituisce l’identità trinitaria dell’essere, del pensare e del dire. Invece il non ente (τὸ μὴ ἐόν) non può essere né pensato né espresso; ma qui non è possibile non tanto enunciare il non essere, quanto piuttosto praticare un metodo di ricerca veritativo al suo riguardo.

Troviamo la soluzione del problema del soggetto sottinteso qui in questione nel fram-mento B 6, 1–2, del quale proponiamo un’interpretazione diversa da quelle correnti, come del resto emergerà dalla traduzione che ne diamo:

χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν τ’ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ’ οὐκ ἔστιν· τά σ’ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα. Bisogna dire e pensare che l’ente è, infatti è essere; invece il nulla non è [essere]; questo ti esorto a dichiarare.

Intendiamo l’espressione τ’ἐὸν ἔμμεναι secondo il metodo veritativo, come afferma-zione esistenziale che prima è stata usata senza soggetto, ora in questo brano è collega-ta al participio presente τὸ ἐόν ed è giustificacollega-ta grazie alla funzione identicollega-taria di ἔστι. «L’ente è, perché l’ente è ente». Così, diversamente da tutti gli interpreti leggiamo la frase

ἔστι γὰρ εἶναι nel senso di identità del verbo ἔστι; la congiunzione γὰρ sembra svolgere una funzione esplicativa in riferimento al soggetto della frase precedente in quanto ἐόν. Di conseguenza leggiamo la frase μηδὲν δ’ οὐκ ἔστιν nel senso della non identità tra μηδὲν e εἶναι.

Nel caso invece del secondo metodo con la negazione οὐκ ἔστιν, non è possibile asserire alcuna esistenza ma solo la sua assenza, come anche essa non può essere usata per esprimere l’identità in quanto non possiede alcun valore affermativo e giustificativo. Per tal motivo il soggetto sottinteso del verbo οὐκ ἔστιν rimane τὸ μὴ ἐόν e μηδέν (resp. οὐδέν). Soltanto l’ente è, poiché l’ente è ente, mentre il non ente (= il nulla) non è ente, cioè è il non-esistente del quale non è possibile né parlare né pensare in modo veridico.

4 Su Parmenide fondamentali sono i libri più recenti: Casertano (1989); Ruggiu, Reale (1991); Cerri (1999);

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Osserviamo già qui che le determinazioni negative «il non ente» ed «il niente», utilizzate da Parmenide, saranno da Gorgia prese ad oggetto della sua ἴδιος ἀπόδειξις, sulla base del fatto che appunto la funzione di identità ἔστιν può riferirsi anche al non essere, sostenendo in tal modo l’esistenza del non-ente.

Abbiamo qui indicato – forse troppo schematicamente – la duplice funzione del verbo εἶναι (esistenziale e tautologica), benché lo stesso Parmenide, da pensatore arcaico quale era, per diverse ragioni non sia stato in grado o non abbia avuto l’intenzione di distin-guere tali significati. Riteneva egli, infatti, come ci riferisce Aristotele, che «l’ente si dice μοναχῶς, ἁπλῶς», cioè soltanto con un significato assoluto, dimostrando così la tesi monistica che «l’ente è appunto uno» (cf. Phys. I 3). L’ente esistenziale si dice simplici-ter, per cui l’ente di identità è anche uno. La nostra proposta interpretativa poggia sulla tradizione dossografica riguardante l’essere parmenideo.

«Parmenide sembra in qualche modo parlare con maggiore oculatezza [di Melisso], poiché, ritenendo infatti che oltre l’ente non vi sia nessun non-ente (παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν), pensa che l’ente sia di necessità uno, e niente altro.» (Metaph. A 5, 986a27–30). Di conseguenza nella tradizione dossografica l’argomento monistico di Parmenide venne sintetizzato nel modo seguente: al di fuori dell’ente c’è il non-ente, diverso dall’en-te, ma il non-ente è il nulla e dunque soltanto l’endall’en-te, in quanto uno, ha ragion d’essere e si dice in un senso solo (cf. DK 28A28). In tal modo la sottile ambiguità di ἔστιν finì per essere quasi del tutto soppressa.

L’argomentazione di Parmenide nel suo «metodo veritativo», consistente nell’uso positivo (affermativo) del verbo ἔστι, portava alla conclusione che l’ente è, continuo ed ingenerato, uno, immutabile ed incorruttibile, immobile e sferico (fr. B 8). Anche queste caratteristiche dell’ente saranno oggetto della confutazione fatta da Gorgia, benché esse non facciano parte della sua «dimostrazione propria», della quale qui ci occupiamo.

Egualmente notevoli e gravide di significato filosofico furono le conseguenze del secondo metodo di Parmenide, nel quale egli dimostra l’impossibilità dell’essere del non-ente. Platone riferisce nel Sofista (237a; 258d) che Parmenide il Grande, sia nell’in-segnamento orale che in versi, ribadiva continuamente il suo famoso divieto (B 7, 1–2):

οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῆι εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα

Infatti giammai questo costringerai, ad essere i non enti. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero.

II rifiuto di questo divieto sarà definito da Platone come πατραλοία, l’uccisione del Grande Padre (Soph. 241d). Ed essa sarà perseguita per primo da un certo «sofista», del quale Platone non fa il nome, benché apertamente polemizzi con lui e proponga una diversa nozione del non-ente. Ma su quest’ultimo argomento torneremo in seguito.

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3. «Anche queste [aporie] bisogna esaminare» (MXG 980b21)

È ormai dagli interpreti sostenuto come sicuro che, tra le fonti, quella di maggior valore sia l’esposizione del testo dossografico anonimo MXG e non, come si è sostenuto in prece-denza, la versione riportata da Sesto Empirico. Condividiamo questa opinione, ma con la riserva che a nostro avviso non esistono sufficienti motivi per considerare il testo MXG come anonimo e rifiutarne la paternità aristotelica. Altrove abbiamo già sostenuto che questo opuscolo presenta pienamente le peculiarità stilistiche, nonché quelle del metodo diaporematico tipiche di Aristotele5. Un’analisi ulteriore richiederebbe molto più spazio, qui ci limitiamo alle seguenti osservazioni.

Nel catalogo degli scritti di Aristotele (Diog. Laert. V 25) ricompaiono i titoli dei libri polemici che corrispondono alle tre parti di MXG (Πρὸς τὰ Μελίσσου α’, [...] Πρὸς τὰ Γοργίου α’, Πρὸς τὰ Ξενοφάνους α’). Questo testo nei manoscritti veniva tradizional-mente attribuito ad Aristotele, ma solo alcuni interpreti moderni lo hanno considerato come un opuscolo dello Stagirita (Karsten, Mullach); molti, invece, l’hanno inizialmen-te attribuito a Teofrasto (Bessarione, Brandis, Berg, Kern, Reinhardt, Sinizialmen-teinmetz). Solo successivamente è prevalsa l’opinione del Diels, da molti condivisa (Zeller, Gomperz, Robin, Gigon, Kerferd, Wiesner) che pensa ad un peripatetico del terzo secolo, o anche del primo secolo d.C. Successivamente si è parlato di un megarico anonimo (Untersteiner, Reale, Migliori) o di un dossografo anonimo (Cassin). Da ultimo, si è avanzata l’ipotesi di un tardo aristotelico pirronizzante (Mansfeld), e recentemente di un aristotelico molto vicino ad Aristotele (Ioli)6.

Ora, lo scritto MXG non è stato finora analizzato alla luce del metodo diaporetico di Aristotele. Eloquente risulta la costatazione posta alla fine di esso, in cui viene affer-mata la necessità di esaminare le aporie relative alle opinioni dei pensatori del passato:

«E tutte queste sono aporie anche di altri [filosofi] più antichi, cosicché nell’indagine intorno a quelli anche queste bisogna esaminare – ἐν τῇ περὶ ἐκείνων σκέψει καὶ ταῦτα ἐξεταστέον» (980b20).

Ma questo era precisamente il caso delle tesi paradossali sostenute da Melis-so, da Senofane e da Gorgia. L’autore ci sembra un dialettico che riassume prima le tesi di ciascuno dei tre pensatori connessi con l’eleatismo in modo da poter successi-vamente sollevare le aporie che scaturiscono dallo scontro di illazioni paradossali (cf. 974b8–977a11; 977b21–979a9; 979a34–979b19).

5 Rinvio ai miei articoli: Wesoly (1983/84, 1986). Ecco le reazioni a me note: «M. Wesoly, ..., argues that

the method of Anonymus is that of Peripatetic dialectic, but he only takes MXG chs. 5–6 into account. Because the published version of his paper reached me too late to be taken into account, I shall discuss it on another occasion» (Mansfeld 1988: 204). «Ciò lascia piuttosto perplessi nei confronti dell’ipotesi da M. Wesoly..., il quale ritiene che lo scritto MXG possa risalire direttamente ad Aristotele o a qualche suo allievo-uditore» (Mazzara 1999: 106). «Proprio la chiararezza di questa distinzione [sc. ἁπλῶς εἰπεῖν - ἔστιν ὁμοίως μὴ ὂν] mi induce a dubi-tare che l’autore di questo trattato sia un megarico, come sostengono alcuni (Untersteiner, Reale, Migliori), ed a prendere in seria considerazione l’ipotesi che egli sia proprio Aristotele» (Berti 1992: 21–22).

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Va notato che lo scritto MXG non solo costituisce un’esposizione dossografica anoni-ma, ma propone per l’esattezza un esame diaporematico tipicamente aristotelico. Secon-do Aristotele una delle funzioni della dialettica è proprio quella di «svolgere aporie in ambedue le parti delle alternative (πρὸς ἀμφότερα διαπορῆσαι) per poter discernere più facilmente il vero e il falso in ogni cosa» (Top. 101a35). Si noti che in Aristotele il verbo ἐξετάζειν si riferisce all’esame dialettico delle opinioni filosofiche. In questo senso la dialettica si presenta come il metodo che consiste nell’esaminare le aporie (cf. Top. I 11, 104b12–16; EN 1095a28–30; 1145b2–6). Il metodo diaporetico di Aristotele consisteva nel confutare le premesse o le conclusioni di tali tesi contrarie (cf. Top., VII 5; 13–14; DC, 279b7; EE, 1215a3–7).

Al fondo delle aporie in MXG sta l’essere parmenideo, che Aristotele prende parti-colarmente di mira; si noti il senso della sua frase μάλιστα δὲ τὸ ἀπορῆσαι ἀρχαϊκῶς (Metaph. 1089a2) con riferimento a Parmenide, le cui premesse sono false, e le conclusio-ni scorrette. In questa prospettiva la denominazione ἴδιος ἀπόδειξις (λόγος) riguardante Gorgia sembra essere aristotelica. Lo si ricava dalle parole nella Fisica (I 3), dove lo Stagi-rita, oltre i suoi logoi contro Parmenide, menziona anche «certi altri propri o appropriati, particolari».

«Anche contro Parmenide vale lo stesso tipo di argomenti (ὁ αὐτὸς τρόπος τῶν λόγων), anche ce ne sono certi altri [contro lui] propri (εἴ τινες ἄλλοι εἰσὶν ἴδιοι). E la soluzione da un lato è che [l’assunto è] falso, e dall’altro che non è concludente; falso perché assume che l’ente si dice in assoluto (ἁπλῶς), mentre viene detto in molti modi (πολλαχῶς)» (186a22ss.).

Ebbene, secondo Aristotele Parmenide aveva erroneamente assunto l’ente nel senso ἁπλῶς, benché esso si dica πολλαχῶς, cioè in molti modi e, d’altra parte, aveva sostenuto la falsa conclusione che «tutto è uno». Parmenide non si è avveduto del fatto che l’esse-re uno del pl’esse-redicato è diverso dall’essel’esse-re uno del suo soggetto. Va notato che Aristotele nella sua disamina di Parmenide parte proprio dal riconoscimento della struttura predi-cativa, il che testimonia nel modo più chiaro il valore logico-linguistico di εἶναι nel suo complesso.

Ma un’allusione all’idios logos di Gorgia viene subito dopo. Discutendo le aporie deri-vanti dal monismo parmenideo, Aristotele osserva infine che alcuni, accettando la tesi che l’ente significa uno, hanno inventato che «il non ente è»; vi è in ciò una sottinte-sa e indubbia allusione all’argomento meontologico di Gorgia, del quale tratteremo in seguito (§ 7).

Qui vale la pena mettere in evidenza un altro aspetto tipicamente aristotelico. Si tratta del modo di esaminare le aporie per mezzo dell’aporema, cioè un sillogismo dialettico conducente alla contraddizione (ἀπόρημα δὲ συλλογισμὸς διαλεκτικὸς ἀντιφάσεως (Top. 162a17). Va notato che Aristotele tenta di sollevare le aporie mediante la forma dell’alternativa: πότερον [...] ἢ [...] (cf. APo 71a29; Phys. 217b30–31; Metaph. B; Γ 6, 1011a6,etc.; EN, VII 3; EE, 1235b13–20). Possiamo esprimere tale aporema nella formula: «Se p, allora q oppure r».(Wesoły, 1986: 317) E questo è propriamente – come vedremo –

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4. L’argomento meontologico e nichilistico di Gorgia

Ebbene, in base all’esposizione di MXG, Gorgia (pur mai nominato) ha presentato per primo la sua ἴδιος ἀπόδειξις (λόγος), per la quale «non è né essere né non essere» (οὐκ ἔστιν οὔτε εἶναι οὔτε μὴ εἶναι), equivalente all’esito che «niente è» (οὐδέν ἐστιν), dopo di che ha provato la stessa conclusione traendola dalle conseguenze contraddittorie scatu-renti dagli asserti contrari di Zenone e Melisso a proposito degli enti. Abbiamo già esami-nato altrove la costruzione argomentativa della seconda prova di Gorgia (Wesoły 1986); qui ci limitiamo a proporre una nuova esegesi relativamente all’«argomento proprio».

Presumibilmente è stato Aristotele (vedi sopra) a coniare questa espressione, che si può spiegare con il fatto che essa costituisce una «propria, particolare, originale» (ἴδιος) confutazione dell’argomento ontologico di Parmenide, a differenza di quegli argo-menti che Gorgia ha ripreso dalle tesi contraddittorie dei due successori di Parmenide7.

Sottolineiamo qui il fatto – del resto già noto agli studiosi, ma diversamente inter-pretato – che la «dimostrazione propria» di Gorgia risulta essere una raffinata parodia dell’argomento ontologico di Parmenide. Esso consiste, infatti, in una costruzione argo-mentativa formata da asserti condizionali i cui soggetti sono di volta in volta le espressioni «il non essere», «il non ente», nonché «l’essere» e «l’ente», e il cui predicato è rappre-sentato solo dal verbo «è» o «non è» nel suo implicito duplice significato tautologico ed esistenziale. Grazie a ciò l’argomentazione, analogamente a quanto avveniva in Parme-nide, si basa su un certo gioco sintattico-semantico.

Ecco qui di seguito il testo succinto di MXG riguardante la ἴδιος ἀπόδειξις che ripor-tiamo in tre distinti argomenti (evidenziati dagli a capo) e che traduciamo in modo assai aderente al testo, anche se non stilisticamente felice, in modo da rendere meglio lo svol-gimento argomentativo8:

[1] εἰ μὲν γὰρ τὸ μὴ εἶναι ἔστι μὴ εἶναι, οὐδὲν ἂν ἧττον, τὸ μὴ ὂν τοῦ ὄντος εἴη. τό τε γὰρ μὴ ὄν ἐστι μὴ ὄν, καὶ τὸ ὂν ὄν, ὥστε οὐδὲν μᾶλλον ἢ εἶναι ἢ οὐκ εἶναι τὰ πράγματα.

Se infatti il non essere è non essere, niente di meno il non ente sarebbe che l’ente. Infatti il non ente è non ente, e l’ente è ente, cosicché le cose per niente di più sono anzi-ché non sono.

[2] εἰ δ’ ὅμως τὸ μὴ εἶναί ἐστι, τὸ εἶναι, φησίν, οὐκ ἔστι τὸ ἀντικείμενον. εἰ γὰρ τὸ μὴ εἶναί ἐστι, τὸ εἶναι [ἢ] μὴ εἶναι προσήκει.

Se tuttavia il non essere è, l’essere – dice – non è, in quanto suo opposto. Se infatti il non essere è, all’essere conviene il non essere.

7 «Wesoly 1983-4, 23, plausibly suggests that the argument is so designated because it constitutes an original

refutation of Parmenides’ ontological argument, whereas the other arguments of the first division are adapted from the arguments of Parmenides’ successors» (Palmer 1999: 69).

8 Cf. la più recente e approfondita edizione del testo MXG riguardante Gorgia con traduzione e commento

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[3] ὥστε οὐκ ἂν οὕτως, φησίν, οὐδὲν ἂν εἴη, εἰ μὴ ταὐτόν ἐστιν εἶναί τε καὶ μὴ εἶναι. εἰ δὲ ταὐτό, καὶ οὕτως οὐκ ἂν εἴη οὐδέν· τό τε γὰρ μὴ ὂν οὐκ ἔστι καὶ τὸ ὄν, ἐπείπερ ταὐτὸ τῷ μὴ ὄντι. οὗτος μὲν οὖν ὁ αὐτὸς λόγος ἐκείνου

Sicché non ci sarebbe niente – dice – così, se non è identico essere e non essere. Se poi è identico, anche così non ci sarebbe niente; infatti il non ente non è, e l’ente [non è], poiché appunto è identico al non ente. Questo, dunque, è il suo argomento proprio (MXG, 979a25–33).

Osserviamo che nella «dimostrazione propria» si ottengono come risultati interme-di due conseguenze parallele: prima l’esito che «il non ente è identico (ταὐτό) all’ente», e poi che «il non ente non è identico, ma opposto (τὸ ἀντικείμενον) all’ente». La conclu-sione finale è stata dedotta da questi due casi complementari e reciprocamente escluden-tesi. Per maggior chiarezza presentiamo una parafrasi formale di queste conseguenze parallele:

( I.1) Se il non ente è non ente, e l’ente è ente, allora il non ente è ente (sc. il non ente è identico all’ente);

( I.2) Se il non ente è ente, allora il non ente è (= esiste); (II.1) Se il non ente è (= esiste), allora l’ente non è (= non esiste); (II.2) Se il non ente è, e l’ente non è, allora il non ente è opposto all’ente.

Si vede, dunque, che il ragionamento sopra riassunto nelle formule (I.1) e (I.2) sembra un’adeguata ricostruzione della prima parte della «dimostrazione propria» di Gorgia, secondo il quale «il non ente è (= esiste)» appunto perché il non ente è identico all’ente. L’introduzione del non ente è qui operata grazie al semplice uso dell’«è» di identità, che Parmenide ha usato solamente per l’ente e che Gorgia, invece, ha applicato ugualmente all’ente ed al non ente.

Il punto nodale di questa argomentazione sembra essere la conseguenza (I.1) affer-mante che «il non ente è ente», il che equivale, benché di significato diverso, all’esito (I.2) affermante che «il non ente è (= esiste)». È questa una constatazione che non osserva il solenne divieto di Parmenide circa l’impossibilità del non ente. Gorgia non antepone qui la negazione al verbo ἔστι, ma introduce soltanto le forme negative sostantivate μὴ εἶναι e μὴ ὄν, le quali, non essendo in contrasto col «metodo vero» di Parmenide (che proibiva propriamente l’uso della negazione οὐκ ἔστι), gli permettono, tuttavia, di capo-volgerne la tesi principale.

In questo modo Gorgia ha dimostrato per primo che il non ente esiste, così come l’ente. II titolo della sua opera menziona il «non ente», benché lo scopo finale del suo argomento sia stato la negazione dell’ente e del non ente, ossia la tesi che «niente è». Perché dunque nello stesso titolo egli non fatto riferimento alla sua conclusione nichili-stica, ad esempio usando l’espressione sul niente (περὶ οὐδενός, περὶ τοῦ μηδενός)? Forse che «il non ente» sarebbe stato per lui identico a «niente, nulla»?

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Se per Parmenide il non-essere viene inteso come assoluto nulla9, questo non sembra sia il caso della idios apodeixis di Gorgia, in cui distinguiamo la componente meontologi-ca. Infatti, l’introduzione del non ente risulta il momento più essenziale della sua contrar-gomentazione, in quanto è esso a fornire lo spunto per rovesciare l’argomento ontologico di Parmenide. Come vedremo, questa ammissione del non ente è stata collegata più volte da Platone ed Aristotele con un ‘sofista’, benché in forma allusiva e senza nominare mai esplicitamente Gorgia, ma in modo tale da permetterne una chiara identificazione. Per quanto riguarda poi l’espressione «sul niente», e quindi la formulazione della conclusio-ne nichilistica, essa si incontra egualmente in Aristotele, laddove questi riporta un certo argomento il cui autore può essere identificato con il medesimo sofista.

Anche se l’esposizione della idios apodeixis è alquanto lapidaria, la sua intenzione sofistica è chiara: si tratta infatti di mostrare che l’ammettere nello stesso tempo l’identità e l’opposizione tra l’ente e il non ente porta alla loro contraddizione interna e così viene esclusa la possibilità dell’essere di qualsiasi cosa. Notiamo che tale intento confutatorio, tendente a mostrare che i contrari sono al tempo stesso diversi ed identici, è caratteristica proprio del metodo sofistico consistente nell’«arte della contraddizione» (ἀντιλογικὴ τέχνη) il cui più famoso esempio è costituito dal trattato Δισσοì λόγοι (Argomenti duplici). «La sua struttura fondamentale consiste chiaramente nella formulazione di opposti

argo-menti sull’identità o non-identità di termini morali e filosofici apparentemente opposti, come buono e cattivo, vero e falso» (Kerferd 1988: 72).

Per mancanza di spazio non possiamo qui discutere l’esposizione della prima tesi di Gorgia che «niente è» nella versione di Sesto Empirico, il quale nel suo trattato Contro i logici la presenta per mezzo di tre argomenti resi in forma implicativa e reciprocamente escludentesi:

«Che niente è, lo dimostra in questo modo: se infatti è, o è l’ente o il non ente o l’ente e il non ente insieme. Ma né è l’ente, come stabilirà, né è il non ente come dirà, né l’ente e il non ente insieme, come pure insegnerà. Quindi non [c’]è qualcosa.» (Adv. Math. VII 66).

Tuttavia questa tripartizione dei conseguenti sembra essere un intervento di Sesto derivante dal suo metodo scettico (reductio ad absurdum) volto ad eliminare ogni presun-ta propospresun-ta. Ci sono spresun-tati dei tenpresun-tativi per raccordare il resoconto di MXG con certe parti dell’esposizione di Sesto, in particolare per le tesi che «il non ente non è» (Adv. Math., VII 67) e che «non sono insieme l’ente e il non ente» (Adv. Math., VII 75–76). Purtutta-via, i tentativi di accordare le somiglianze interne delle due versioni si sono dimostrati illusori e hanno impedito la comprensione della struttura profonda della ἴδιος ἀπόδειξις. Nel testo di MXG che riporta questa apodeixis si incontra una tecnica argomentativa del tutto diversa, fondata implicitamente sulla duplice funzione del verbo ἔστι, oltreché che sulla clausola «niente di meno» - «niente di più», della quale non vi è traccia in Sesto. La seconda parte della relazione di Sesto e che presenta la forma della confutazione del

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conseguente dell’implicazione «se l’ente è, allora...», non ha assolutamente corrispon-denza nella gorgiana «dimostrazione propria» e forse è solo l’analogo del suo successivo argomento, che confuta le tesi di Melisso e di Zenone. Inoltre, una diversa funzione viene svolta nei due testi dal presupposto dell’identità dell’ente e del non ente: in Sesto esso costituisce la terza parte delle argomentazioni come tesi di partenza per la confutazione, mentre in MXG essa è in un certo qual modo la conseguenza dei precedenti ragionamen-ti, che porterà in seguito alla conclusione che «niente è». Può essere che l’ingannevole somiglianza delle due versioni dipende dal fatto che entrambi gli autori hanno dedotto la stessa conclusione nichilistica da certi presupposti aventi forma implicativa. Con ciò non vogliamo certo affermare che per la ricostruzione di altre parti dell’opera di Gorgia Sul non ente la relazione di Sesto sia ingannevole e di poco valore10.

5. La «dimostrazione propria» nella disamina diaporematica di Aristotele

Ora riportiamo la disamina della «dimostrazione propria» compiuta, dopo averla rias-sunta, dall’autore del MXG e i cui assunti – come sosteniamo – corrispondono in pieno al metodo aporematico e al punto di vista aristotelici. Ecco, in una traduzione quanto più possibile letterale, il testo di questa critica:

[1] Οὐδαμόθεν δὲ συμβαίνει ἐξ ὧν εἴρηκεν, μηδὲν εἶναι. ἃ γὰρ καὶ ἀποδείκνυσιν, οὕτως διαλέγεται. εἰ τὸ μὴ ὄν ἐστιν, ἢ ἔστιν ἁπλῶς εἰπεῖν, ἢ καὶ ἔστιν ὁμοίως τῷ ὄντι11.

Da nessun luogo consegue da ciò che [Gorgia] ha detto che niente è. Quel che infatti egli dimostra, così si discute [dialetticamente]: «se il non ente è, o è dirlo in assoluto [non ente], oppure anche è uguale all’ente».

[2] τοῦτο δὲ οὔτε φαίνεται οὕτως οὔτε ἀνάγκη, ἀλλ’ ὡσπερεὶ δυοῖν, τοῦ μὲν ὄντος, τοῦ δ’ οὐκ ὄντος12, τὸ μὲν ἔστι, τὸ δ’ οὐκ ἀληθές, ὅτι ἐστὶ τὸ μὲν μὴ ὄν.

Questo, tuttavia, né appare così, né è necessario, ma come nei due [casi]: dell’ ente, del non ente, l’uno è, dell’altro non è vero [che sia], poiché è appunto il non ente.

[3] διότι οὖν οὐκ ἔστιν, οὔτε εἶναι οὔτε μὴ εἶναι, τὰ ἄμφω οὔθ’ ἕτερον οὐκ ἔστιν; οὐδὲν γάρ [ἧττον], φησίν, εἴη ἂν τὸ μὴ εἶναι τοῦ εἶναι, εἴπερ εἴη τι καὶ τὸ μὴ εἶναι, ὅτε οὐδείς φησιν εἶναι τὸ μὴ εἶναι οὐδαμῶς.

Perché dunque non è né essere né non essere, né entrambi né l’uno o l’altro dei due non è? Infatti niente di meno, egli dice, il non essere sarebbe dell’essere, se pure fosse qualcosa anche il non essere, mentre nessuno dice che è il non essere in nessun modo.

[4] εἰ δὲ καὶ ἔστι τὸ μὴ ὂν μὴ ὄν, οὐδ’ οὕτως ὁμοίως ἂν εἴη τὸ μὴ ὂν τῷ ὄντι·13 τὸ μὲν γάρ ἐστι μὴ ὄν, τὸ δὲ καὶ ἔστιν ἔτι.

10 Per una ulteriore discussione cf. Ioli (2010: 163–171). 11 Rinvio qui al mio articolo Wesoly (1986: 318–325).

12 Accetto il testo del manoscritto R (Vaticanus gr. 1302): τοῦ δ’ οὐκ ὄντος.

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Se poi il non ente è non ente, neppure così sarebbe uguale il non ente all’ente: l’uno infatti è non ente, mentre l’altro è ancora [ente].

[5] εἰ δὲ καὶ ἁπλῶς εἰπεῖν ἀληθές, ὡς δὴ θαυμάσιόν τ’ ἂν εἴη τὸ μὴ ὄν ἐστιν. ἀλλ’ εἰ δὴ οὕτω, πότερον μᾶλλον ξυμβαίνει τὰ πάντα εἶναι ἢ μὴ εἶναι; αὐτὸ γὰρ οὕτω γε τοὐναντίον ἔοικε γίνεσθαι.

Se poi dirlo in assoluto fosse vero; ma come sarebbe strano [dire]: il non ente è, ma se fosse appunto così, forse ne consegue che tutto piuttosto non è che è? In effetti, la stessa cosa in questo modo sembrerebbe diventare il suo contrario.

[6] εἰ γὰρ τό τε μὴ ὂν ὄν ἐστι καὶ τὸ ὂν ὄν ἐστιν, ἅπαντά ἐστιν. καὶ γὰρ τὰ ὄντα καὶ τὰ μὴ ὄντα ἐστίν. οὐκ ἀνάγκη γάρ, εἰ τὸ μὴ ὄν ἐστι, καὶ τὸ ὂν μὴ εἶναι.

Se infatti il non ente è ente, e l’ente è ente, tutto è; difatti sia gli enti che i non enti sono; non è necessario infatti, se il non ente è, che anche l’ente non sia.

[7] εἰ δὴ καὶ οὕτω τις ξυγχωρεῖ, καὶ τὸ μὲν μὴ ὂν εἴη, τὸ δὲ ὂν μὴ εἴη, ὅμως οὐδὲν ἧττον εἴη ἄν· τὰ γὰρ μὴ ὄντα εἴη κατὰ τὸν ἐκείνου λόγον.

Ma se qualcuno così convenisse, che anche il non ente sarebbe e l’ente non sareb-be, tuttavia per niente di meno sarebsareb-be, poiché i non enti sarebbero, secondo il suo argomento.

[8] εἰ δὲ ταὐτόν ἐστι καὶ τὸ εἶναι καὶ τὸ μὴ εἶναι, οὐδ’ οὕτως μᾶλλον οὐκ ἄν τι εἴη. ὡς γὰρ κἀκεῖνος λέγει, ὅτι εἰ ταὐτὸν τὸ μὴ ὂν καὶ τὸ ὄν, τό τε ὂν οὐκ ἔστι καὶ τὸ μὴ ὄν. ὥστε οὐδέν ἐστιν, ἀντιστρέψαντι ἔστιν ὁμοίως φάναι ὅτι πάντα ἐστίν. τό τε γὰρ μὴ ὄν ἐστι καὶ τὸ ὄν, ὥστε πάντα ἐστίν.

Se poi identico è l’essere e il non essere, neanche così qualcosa niente di più sarebbe che non sarebbe. Come proprio lui dice, che – se è identico il non ente e l’ente – e l’ente non è, e il non ente [non è], cosicché niente è; convertendo è ugualmente lecito dire che tutto è: difatti il non ente è e l’ente è, cosicché tutto è (MXG, 979a35–b19).

In questo modo viene esaminata e messa in dubbio la conclusività dell’ ἴδιος ἀπόδειξις. Secondo la dialettica di Aristotele, la confutazione aporematica di una tesi consiste nella deduzione delle conseguenze contraddittorie dagli assunti e grazie a ciò la conclusione messa in questione viene capovolta e così le premesse sono rigettate (cf. Top. I 2; I 10–11; VII 13–14).

Ma soprattutto bisogna capire il senso del διαλέγεται nel suo contesto. A torto si suole ritenere che lo stesso Gorgia “discute dialetticamente” la sua dimostrazione propria, ma dal contesto risulta evidente che si tratta di una confutazione dialettica da parte dell’autore del MXG, e ciò viene giustificato per l’appunto dalle frasi successive del testo14.

A questo scopo egli (secondo noi Aristotele) formula in modo dialettico l’aporema concernente la duplice accezione del non ente: «se il non ente è, o è [a] dirlo in assoluto non ente, oppure anche [b] è uguale all’ente». Il non ente viene preso alternativamente

14 Cf. anche nel MXG διελέχθη (975a6) e διαλέγεται (975a35), dove il senso della confutazione viene dato

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in accordo alle due accezioni di ἔστι, esistenziale e identitario (tautologico). Ma questa duplice accezione del non ente non sembra né evidente né necessaria. Infatti, l’evidenza al riguardo sostiene che l’ente è, mentre il non ente non è.

Pertanto nel caso [b] il non ente viene considerato come simile all’ente, il che presu-mibilmente è una riformulazione aristotelica dato che «il simile» rappresenta un tipo di «identico» (cf. Metaph. V 9, 1018a15–18; I 3, 1054b3–13). Innanzi tutto Aristotele mette in dubbio la conclusività dell’esito nichilistico, discutendo il caso [b] concernente il non ente come simile all’ente. Tramite la clausola «niente di meno» si ammette infatti il non ente, non in senso assoluto ma proprio come «il non essere qualcosa». A questo punto viene ribadita l’opinione aristotelica che il non ente viene preso in senso predicativo e non esistenziale. È coerente con Aristotele l’esclusione che il non ente sia simile all’ente, dato che il non ente è non ente e l’ente è ente; non vi è tra loro alcuna somiglianza ma soltanto opposizione contraddittoria.

In secondo luogo Aristotele mette in dubbio la nozione di non ente [a] in assoluto, che gli sembra molto strano, dato che conduce all’esito che tutto non è piuttosto che è. Nel caso del non ente preso in assoluto l’applicazione della clausola «niente di più» porta paradossalmente a non distinguere le tesi contraddittorie, onde egualmente tutto non è ed insieme è. Purtuttavia qui (vedi sopra il punto (II.1)) Gorgia non è conseguen-te: affermando che «il non ente è», non si dovrebbe ammettere che «l’ente non è». Se si accetta l’identità della contraddizione non si deve poi rifiutarla. Si tratta qui del fatto che, accettando una volta l’argomento meontologico, non sarebbe poi giustificata l’ul-teriore illazione nichilistica. Secondo l’autore di MXG, dagli assunti ammessi da Gorgia risulta dunque che «il non ente è» ed anche contro le sue intenzioni – che «tutto è».

Partendo dalla riformulazione degli stessi assunti di Gorgia la suddetta critica mira a rigettarne il nichilismo ontologico. Si tratta dunque di una disamina diaporematica, come quelle che Aristotele di solito usava nei riguardi delle tesi filosofiche paradossali dei suoi predecessori. In questo modo ci siamo avvicinati anche alla posizione aristotelica sulla questione del non ente, alla quale accenneremo in seguito.

6. «Platone non male ordinò la sofistica intorno al non ente» (Metaph. E 2, 1026b14)

Una simile constatazione viene ripetuta anche nel libro K 8: «Platone non ebbe torto a dire che il sofista si occupa del non ente» (Metaph. 1064b29). Infatti, l’ammissione del non ente potrebbe essere considerata come una certa conseguenza del monismo eleatico che ha dato origine al movimento sofistico e ciò è stato ben riconosciuto da Platone e da Aristotele.

Nel Sofista di Platone si discute sul non ente, ma l’ispirazione venne proprio dall’au-dace argomento di un sofista che osò sfidare il solenne divieto di Parmenide circa il non ente. Lo Straniero di Elea racconta infatti che già da ragazzo conosceva il divieto del gran-de Parmenigran-de (Soph. 237a). Inoltre, essendo più giovane, cregran-deva di capire esattamente

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questa difficoltà, cioè quando «qualcuno» (τις) parlava del non ente; ora invece si avvol-ge a questo riguardo in aporie (Soph. 243b). Si tratta dunque di un sofista non nominato, il quale «rifugiandosi nell’oscurità del non ente ed attaccandosi ad essa nel suo esercizio, per l’oscurità del luogo è difficile da cogliere» (Soph. 254a)15.

La discussione che segue ha un duplice scopo: intanto, contrariamente a quanto vietava Parmenide, ammettere il non ente, e in secondo luogo, confutando l’argomento meontologico del sofista, proporre una soluzione migliore. Senza entrare nei particolari, osserviamo soltanto che Platone nella polemica col sofista [Gorgia] trae alimento dal suo argomento meontologico che si fonda sulla formula di identità, cioè sull’asserto che il «non ente è non ente». Lo Straniero eleate definisce il non ente nel modo seguente:

«A questo punto bisogna ormai avere il coraggio di dire che il non ente è saldamente in posses-so della propria natura; e come il grande era grande, il bello bello, e il non grande non grande e il non bello non bello, così pure il non ente secondo l’identità (κατὰ ταὐτὸν) era ed è non ente, in quanto una forma singola annoverata fra i molteplici enti” (Soph. 258b–c).»

Così dunque Platone, polemizzando con l’invenzione sofistica del non ente, ha ripre-so lo stesripre-so «è» tautologico che è stato coniato da Gorgia allo scopo di capovolgere l’ar-gomento ontologico di Parmenide, benché il suo intendimento al riguardo fosse diverso da quello del Lentinese. Nondimeno Platone non prende il non ente in senso assoluto (esistenziale) ma lo impiega in senso predicativo come una specificazione dell’ente, cioè come il suo diverso (τὸ θάτερον); pertanto il non ente è onticamente non ente (ἔστιν ὄντως μὴ ὂν – Soph. 254d; 258e; cf. Pol. 248b8)16.

Ciò testimonia di una qualificazione positiva del non ente che in questo modo non sta in opposizione assoluta all’essere, ma è solo diverso da esso. Tale soluzione permette a Platone di risolvere anche il problema della predicazione negativa e della enunciazione del falso.

Nel Sofista (258b–c), dopo aver ammesso il non ente, usando argutamente l’«è» tautologico, a quel punto della discussione lo Straniero, soddisfatto della propria scoper-ta della natura del non ente come «il diverso dall’ente», rivolge una critica alla maniera confutatoria del sofista che «si diverte a trascinare i discorsi ora in un senso, ora in un altro e si è impegnato in cose che non sono degne di molto impegno, come mostrano i discorsi fatti ora. Infatti, quest’ultimo [argomento] non è raffinato né difficile da

scoprir-15 Non credo tuttavia che nello Straniero di Elea si possa riconoscere lo stesso Gorgia, come suggerisce

il Newiger (1973: 187–188), dato che Lo Straniero si rivolge polemicamente alla posizione sofistica e nichilistica sul non ente. Si tratta, qui, ovviamente di una posizione propria di Platone. Solo Movia (1991: 317), che io sappia, ha notato la mia proposta interpretativa che si riferisce richiamante alla «meontologia» di Gorgia.

16 Benché negli studi su Gorgia (Newiger 1973; Mazzara 1982; Ioli 2007) si individuino certe analogie con

il Sofista di Platone, tuttavia la sottintesa allusione al non ente gorgiano non viene riconosciuta. Ugualmente istruttivi sono i libri recenti sul non ente del Sofista (Palumbo 1994; O’Brien 2005; Fronterotta 2007; Centrone 2008), quantunque gli autori non si pronuncino sulla meontologia gorgiana. Ma di recente si veda Ioli (2013: 18–21).

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si, mentre quell’altro è difficile e bello insieme», aggiungendo subito dopo che si tratta di quanto discusso precedentemente, ossia:

«Quello che si è detto anche prima: il lasciar perdere quelle identità come possibili nelle espres-sioni (τὸ ταὐτὰ ἐάσαντα ὡς δυνατὰ τοῖς λεγομένοις)17, pur essendo capaci di confutare in

ogni caso, qualora questi [Gorgia] dica che il diverso è in qualche modo identico, e l’identico è diverso (ὅταν τέ τις ἕτερον ὄν πῃ ταὐτὸν εἶναι φῇ καὶ ὅταν ταὐτὸν ὂν ἕτερον), in questo modo, e secondo quello che dica, uno dei due subisce l’influsso dell’altro. Ma mostrare l’iden-tico diverso in un modo o nell’altro, e il diverso idenl’iden-tico, il grande piccolo e il simile dissi-mile, e divertirsi così di porre sempre i contrari nei discorsi (καὶ χαίρειν οὕτω τἀναντία ἀεὶ προφέροντα ἐν τοῖς λόγοις), non è questa una vera confutazione (ἔλεγχος), anzi è chiaro che si tratta di un neofita, di uno che è entrato da poco in contatto con gli enti» (Soph. 259c–d). Gli studiosi di Platone notano che qui ci si riferirebbe ai Megarici, agli Eristici oppure ad Antistene, non supponendo mai che l’autore del Sofista avesse potuto avere in mente appunto il sofista Gorgia. Difficile sarebbe, tuttavia, attribuire ai Megarici o ad Antiste-ne la posizioAntiste-ne qui discussa da PlatoAntiste-ne. Simplicio (In Phys.120, 12–17 Diels) spiega che i Megarici prendendo come ovvia la premessa che diverse sono le cose la cui definizione è diversa, dimostrano che ogni cosa è separata da se stessa reciprocamente. Invece Anti-stene, come ci dice Aristotele (Metaph. 1024b32–34), ha messo in generale in dubbio la possibilità della contraddizione accettando come giustificati solo gli asserti di identità. Ma non fu altri che Gorgia ad accettare la possibilità delle identità nelle espressioni e ad usare il metodo confutatorio per mostrare addirittura che ciò che è diverso è in qual-che modo identico e viceversa, ed in particolare qual-che l’identico è l’opposto dell’ente e del non ente (cf. Phaedr. 267a–b con riferimento a Gorgia).

Pertanto Platone sembra qui alludere criticamente alla seconda parte dell’argomento proprio di Gorgia, quando, dall’identità e dalla diversità insieme dell’ente e del non ente, scaturisce l’esito nichilistico che «niente è». Platone, tuttavia, si fermò alla sola formula-zione dell’argomento meontologico, a differenza del sofista Gorgia che procedette oltre in direzione del nichilismo ontologico, annullando di conseguenza la possibilità del λόγος del quale si parla nella successiva parte del Sofista (259d–260b) dove come in tutto il dialo-go il sofista Gorgia viene criticato, ma non nominato (sic!)

In questo dialogo Platone cerca di districarsi da quella argomentazione sofistica sul non ente e sul falso, mentre nel Parmenide egli compie il tentativo di venire a capo dell’argomentazione eleatica sull’ente-uno. Se l’assunto del monismo eleatico ha condot-to all’argomentazione sofistica, allora si capisce anche l’esicondot-to nichilistico dell’epilogo del

17 Qui †δυνατὰ† – crux philologorum. Proponiamo la congettura ταὐτά invece di ταῦτα. Cf. 258c κατὰ ταὐτὸν.

In tal modo si chiarisce il significato di questa frase difficile e si rende comprensibile quale l’argomento sofistico che Platone ha qui di fronte. Solo Movia (1991: 421) ha fatto cenno a questa congettura.

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Parmenide di Platone, che costituisce quasi una reminiscenza dell’argomento nichilistico di Gorgia:

«Se dunque in breve dicessimo: se uno non è, niente è (ἓν εἰ μὴ ἔστιν, οὐδέν ἐστιν), forse che diremmo correttamente? – In ogni caso – Lo si dica allora ed anche che, come sembra, se uno è o se non è (ἓν εἴτ’ ἔστιν εἴτε μὴ ἔστιν), esso stesso e gli altri, tanto in rapporto a se stessi quanto reciprocamente, tutti in ogni modo sono e non sono, appaiono e non appaiono (πάντα πάντως ἐστί τε καὶ οὐκ ἔστι καὶ φαίνεταί τε καὶ οὐ φαίνεται). – Verissimo» (Parm. 166b7).

7. «Perciò anche il non ente diciamo che è non ente...» (Metaph. Γ 2, 1003b10)

A proposito della precisazione che τὸ ἔστι appartiene in modo assoluto solo alle sostan-ze, mentre in modo non assoluto appartiene alle altre categorie, Aristotele ripete le stesse parole affermando che «nel caso del non ente alcuni dicono in modo verbale (λογικῶς) che il non ente è, non in assoluto, bensì come non ente [qualcosa]» (Metaph. Z 4, 1030a25–26).

In queste parole è possibile vedere un riferimento all’argomento meontologico di Gorgia, probabilmente nella riformulazione datane da Platone. Asclepio (a cavallo dei secoli V e VI d.C.), nel commentare questo brano, dice che proprio i sofisti parlavano in quel modo del non ente (In Metaph. 386, 26–27, Hayduck). Invece, secondo i commenta-tori moderni, Aristotele probabilmente fa qui allusione al Sofista di Platone (237a; 256a sgg.).

Comunque Aristotele ha ripreso la nozione del non ente non in senso esistenziale (ἁπλῶς μὴ εἶναι), ma propriamente predicativo (μὴ εἶναί τι). Ma la soluzione fornita da lui riguardo la predicazione negativa è più complessa e coerente della proposta platonica. Passiamo ora ad indicare alcune allusioni e analogie con la «dimostrazione propria» di Gorgia che si incontrano in certi scritti dello Stagirita18. In questo modo possiamo comprendere meglio la sua disamina diaporematica compresa nello scritto MXG. Negli Elenchi sofistici, esaminando le fallacie delle argomentazioni sofistiche, Aristotele ha indi-cato tra i paralogismi extra dictionem (a dicto secundum quid ad dictum simpliciter) quello che consiste nel passaggio dall’è predicativo all’è esistenziale.

«I paralogismi secondo il dirsi in assoluto o in qualche aspetto e non principalmente (παρὰ τὸ ἁπλῶς τόδε ἢ πῇ λέγεσθαι καὶ μὴ κυρίως), si generano quando ciò che è detto in parte sia preso come fosse detto in assoluto (τὸ ἐν μέρει λεγόμενον ὡς ἁπλῶς εἰρημένον ληφθῇ), ad esempio «se il non ente è opinabile, allora il non ente è» (εἰ τὸ μὴ ὄν ἐστι δοξαστόν, ὅτι τὸ μὴ ὂν ἔστιν). Non è infatti identico l’essere qualcosa e l’essere in assoluto. Oppure che «l’ente

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non è ente se non è qualcuno degli enti, ad esempio se non è uomo». Infatti non è identico il non essere qualcosa e il non essere in assoluto (οὐ γὰρ ταὐτὸ τὸ μὴ εἶναί τι καὶ ἁπλῶς μὴ εἶναι), anche se sembra lo stesso per l’affinità dell’espressione verbale (διὰ τὸ πάρεγγυς τῆς λέξεως); differisce infatti poco l’essere qualcosa e l’essere, nonché il non essere qualcosa e il non essere» (Soph. El. 5, 166b37–a6).

Va osservato che per l’appunto l’affinità delle espressioni verbali ‘è’ secundum quid ed ‘è’ simpliciter costituiva lo spunto per la prima parte della idios apodeixis, nel quale Gorgia passa dalla premessa «il non ente è non ente» alla conclusione «il non ente è». Aristotele ha notato ciò nel trattare i τόποι degli entimemi apparenti e cioè laddove, nella Retorica (II 24), fa menzione dell’argomentazione dialettica che si basa sul paralogismo – παρὰ τὸ ἁπλῶς καὶ μὴ ἁπλῶς, ἀλλὰ τί.

«Inoltre, come nei discorsi eristici [l’affinità dell’è] in assoluto e non assoluto, [l’è] qualcosa genera un sillogismo apparente, come ad esempio nelle argomentazioni dialettiche, [si conclu-de] che «il non ente è, [premesso] che il non ente è non ente» (ἔστι τὸ μὴ ὄν, ἔστι γὰρ τὸ μὴ ὂν μὴ ὄν), ... così anche nei discorsi retorici c’è un entimema apparente...» (Rhet. II 24, 1402a2–5). Aristotele considerava il suddetto argomento come un paralogismo, cioè un sillogi-smo apparente, in ragione della illazione illegittima dall’«è» predicativo (tautologico) a quello esistenziale. Si tratta dell’argomento entimematico la cui premessa mancante: «l’ente è ente» (καὶ τὸ ὂν ὄν), che del resto si trova nel testo MXG (979a26–27), la quale

riferisce la prima parte della «dimostrazione propria» di Gorgia.

È significativo che Aristotele ritenga questo paralogismo come proprio dell’eristica, che spesso si identificava con la sofistica in quanto arte dell’ingannare. Inoltre Aristote-le considera questo argomento come diaAristote-lettico, il che si spiega bene nei suoi termini in quanto è il modo puramente verbale (λογικῶς, sin. διαλεκτικῶς) per esprimere il non ente (vedi sopra).

Ma c’è di più. Aristotele si è perfettamente reso conto di quel contesto problemati-co vedendo l’argomento meontologiproblemati-co problemati-come problemati-conproblemati-comitante problemati-con la posizione monistica di Parmenide. Egli ha visto nel monismo eleatico ciò che porta alle aporie riscontrabili nei filosofi a lui anteriori, in quanto il divieto di Parmenide avrebbe dovuto essere rifiutato ammettendo il «non ente», come anche la pluralità dell’essere categoriale (cf. Metaph. N 2; Phys. I 2-3). A proposito delle conseguenze sull’ente – uno, Aristotele nella Fisica (I 2) sostiene che l’identificazione di tutte le cose, delle affermazioni e delle negazioni, conduce al nichilismo:

«Ma se in quest’argomento tutti gli enti sono uno (τῷ λόγῳ ἓν τὰ ὄντα πάντα), come ad esem-pio abito e vestito, allora a costoro [gli Eleati] accade di sostenere il logos di Eraclito: identico (ταὐτὸν), infatti, sarà essere buono e cattivo, essere buono e non buono, cosicché identico sarà il bene ed il male, l’uomo ed il cavallo, ma l’argomento non sarà più sulla questione se gli

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enti sono uno (οὐ περὶ τοῦ ἓν εἶναι τὰ ὄντα ὁ λόγος), bensì «sul niente»” (περὶ τοῦ μηδέν)» (Phys. I 2, 185b20–25).

Si incontrano qui – come nel brano della Metafisica (Γ 4) – gli esiti di quell’argo-mento (λόγος) che porta al «niente». Ciò sembra riferirsi all’esito finale dell’illazione gorgiana che «niente è» (οὐδέν ἐστιν). Il fatto che nei suddetti brani non venga nominato Gorgia è puramente casuale. È noto infatti che in Platone ed Aristotele la critica ed il rife-rimento al pensiero altrui non sempre sono accompagnati da una citazione esplicita19.

Subito dopo Aristotele, discutendo le conseguenze del monismo che portano all’ar-gomento vertente sul «niente», aggiunge che l’identità «uno - molti» era di imbarazzo per i più recenti tra i pensatori del passato e che alcuni di costoro sopprimevano l’«è» (τὸ ἐστίν), come Licofrone il quale, come è noto, fu discepolo di Gorgia (cf. Phys. I 2, 185b25–186a3; 83,2 DK). Proseguendo l’analisi critica del monismo eleatico, Aristotele afferma:

«Alcuni hanno dato il loro assenso ad entrambi gli argomenti, cioè a quello che il tutto è uno, se l’ente significa uno (εἰ τὸ ὂν ἓν σημαίνει), giacché «il non ente è» (ἔστι τὸ μὴ ὄν); ed anche a quello ricavato dalla dicotomia, ponendo grandezze indivisibili. È però evidente che non è vero che – se l’ente significa uno, e non è possibile insieme la contraddizione - non sarà affatto il non ente; nulla infatti impedisce che il non ente sia non in assoluto, ma il non ente è non essere qualcosa (μὴ ὄν τι εἶναι τὸ μὴ ὄν)» (Phys. 1 3, 187b1–6).

I commentatori antichi Alessandro e Porfirio, citati da Simplicio (In Phys.133–148 Diels), hanno riconosciuto qui da una parte l’argomento di Platone contro Parmenide e dall’altra l’argomento di Senocrate contro Zenone. Tale riconoscimento di entram-bi gli argomenti dipendenti dal monismo eleatico va troppo avanti nel tempo, dato che l’esito vertente sul non ente sarebbe dovuto essere attribuito per primo a Gorgia, mentre l’ammissione delle grandezze indivisibili è senza dubbio un contributo primario ed origi-nale di Leucippo. Gli studiosi moderni riferiscono entrambi gli argomenti soltanto agli atomisti, a Leucippo e Democrito, senza far in genere cenno all’argomento meontologico del trattato Sul non ente. Da una considerazione complessiva del testo aristotelico risulta per quanto riguarda il primo argomento che si tratta di conseguenze desunte da Gorgia, ovverosia riguardanti l’introduzione del non ente in assoluto. Non è possibile, infatti, che in esso si abbia presente il non ente definito da Platone nel Sofista come «il diverso dall’ente», il quale, come abbiamo detto, non è inteso in senso assoluto. Non è in gioco qui neanche il non ente inteso come il vuoto fisico introdotto dagli atomisti, al quale accenneremo in seguito.

Aristotele, poi, accettava il non ente nel senso della predicazione negativa, ovvero come μὴ ὄν τι – «non essere qualcosa». Non stupisce, quindi, che nella frase successiva

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a quella succitata, Aristotele faccia riferimento alla propria posizione sul non ente (Phys. I 3, 187a3–6). Accettando l’asserto che «il non ente è», non in senso esistenziale ma predi-cativo, Aristotele esclude insieme la contraddizione tra il non ente e l’ente o, altrimenti detto, tra la negazione «...non è... » e l’affermazione «... è ...». È evidente che in questo punto egli rifiuta l’identità tra il non ente e l’ente, che invece era stata ammessa dal sofi-sta Gorgia.

Per quanto riguarda poi il secondo argomento menzionato da Aristotele, esso si rife-risce indubbiamente all’origine eleatica del concetto di grandezze indivisibili, cioè gli atomi, che Leucippo, discepolo di Zenone, ha derivato dal paradosso della dicotomia infinita. Questi due argomenti probabilmente sono stati elaborati all’inizio della seconda metà del V secolo a.C. Lo scritto originale di Gorgia Sul non ente, se prestiamo fede ad Olimpiodoro, risale agli anni 444–441 a.C. L’ammissione dell’esistenza degli atomi e del vuoto per merito di Leucippo pare però un po’ posteriore (circa 430 a. C.).

In ogni caso, la comune origine eleatica di entrambi gli argomenti è molto significa-tiva, in quanto essi hanno in comune l’ammissione del non ente, anche se inteso in due diversi modi: nel senso assoluto e sofistico, come nel caso di Gorgia, che sviluppa il suo logos in direzione nichilistica, e nel senso degli atomisti Leucippo e Democrito, per i quali il non ente viene interpretato in senso fisico come «vuoto», come spazio privo di corpi che, insieme al «pieno», cioè agli atomi, costituisce tutta la realtà. Il non ente – vuoto è l’opposto complementare dell’ente – pieno, mentre il non ente in senso assoluto non possiede alcuna caratteristica oggettiva, se non quella di essere identico in modo para-dossale all’ente.

Nella sua giustificazione dell’identità tra ente e non ente, Gorgia ha usato la stes-sa clausola di carattere simmetrico che poi hanno adoperato gli atomisti, e cioè οὐδὲν μᾶλλον (nihil magis quam) – οὐδὲν ἧττον (nihil minus quam). Per il sofista questa clauso-la offre un senso negativo ed ontologicamente indifferenziato (MXG, 979a25–28), mentre gli atomisti non identificano l’ente ed il non ente, ma parlano dell’unità tra le opposte cause materiali delle cose generate:

«Leucippo ed il suo compagno Democrito affermano che sono elementi il pieno ed il vuoto, chiamando l’uno ente, l’altro non ente; di questi l’ente è pieno e solido, il non ente è vuoto (perciò essi dicono che l’ente non è niente di più che il non ente, giacché il vuoto non è nien-te di meno che il corpo), e quesnien-te sono le cause degli enti come loro manien-teria» (Metaph. A 4, 985b4–9).

Anche Platone nel Sofista (257a–258b), probabilmente ispirato dalla formula di iden-tità che Gorgia aveva usato per gli opposti, si riferisce alla clausola «niente di meno» (οὐδὲν ἧττον) per giustificare la natura del non ente, benché abbia cercato di precisare la dipendenza tra l’ente e il non ente in senso ontologicamente positivo. Questa clausola diventerà poi uno strumento del quale gli scettici si serviranno per esprimere

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l’equiva-lenza degli asserti contrari ed il proprio atteggiamento di sospensione del giudizio (cf. Sextus, PH I 188–191)20.

L’ammissione dell’equivalenza tra ente e non ente porta, sia in Gorgia che negli atomisti, alla violazione del principio di non-contraddizione, benché ovviamente non nella stessa misura e allo stesso modo. Aristotele, polemizzando nel libro Γ 4–5 con i negatori di quel principio, in un modo tratta l’opinione di Democrito secondo la quale «il vuoto ed il pieno sussistono ugualmente in qualunque parte, eppure di questi l’uno è l’ente, l’altro il non ente» (Metaph. 1009a28–30), spiegando che questo genere di oppo-sti possono coesistere potenzialmente ma non in atto; in un altro considera, mettendola in dubbio, l’opinione più radicale e sofistica sull’identità di cose contraddittorie, cioè la posizione che «l’identico è essere e non essere», portata avanti dai sostenitori di Eracli-to e di Protagora. Senza entrare nei particolari, riportiamo solamente i brani in questione:

«E se non si dice il vero distinguendo [affermazione e negazione], si dicono le identità e il non c’è niente (λέγει τε ταὐτὰ καὶ οὐκ ἔστιν οὐθέν)21. Ma i non enti come potrebbero parlare e

camminare? E se tutto fosse uno, come si è detto prima, sarebbero identici «l’uomo» e «dio» e «trireme» e le loro antifasi [...] Insomma è evidente che l’indagine su questo [argomento] è «intorno al niente» (περὶ οὐθενός); in effetti non dice niente (οὐθὲν γὰρ λέγει)22. Infatti

né dice che «è così» (οὕτως), né che «non è così» (οὐχ οὕτως), ma che «è così e non così» (οὕτως τε καὶ οὐχ οὕτως), e poi, di nuovo, nega entrambi i casi, cioè che «né è così né è non così» (οὔθ’ οὕτως οὔτε οὐχ οὕτως)» (Metaph. Γ 4, 1008a20–25; 30–33).

Aristotele alludeva qui criticamente all’argomento vertente sul «niente», il cui auto-re era principalmente Gorgia. Nel succitato brano troviamo una più pauto-recisa nozione di «niente» secondo due formule che ammettono la contraddizione. La prima di esse dice che (1) «è così e non così», asserto esprimibile mediante la semplice contraddizione «p ^ ~ p». Mentre la seconda dice che (2) «né è così né è non così», a sua volta esprimibile mediante la doppia negazione: «~ p ^ (~ p)». Se le suddette formule riassumino oppure parafrasino la posizione nichilistica di Gorgia è una questione aperta. Si potrebbe tutta-via suggerire che esiste un certo legame tra la formula (1) della semplice contraddizione e l’espressione nichilistica οὐδέν ἔστιν («niente è»), nonché analogamente tra la formula (2) con la doppia negazione e l’espres sione nichilistica οὐκ ἔστιν οὐδέν («non è nulla»).

20 R. Ioli (2009: 345–347) ha trattato estesamente dell’evoluzione di questa clausola. 21 Proponiamo la lezione λέγει senza οὐ (cf. cod. Ab) e la congettura ταὐτά invece di ταῦτα.

22 Come si vede dalla traduzione qui proposta, ci allontaniamo dalle interpretazioni correnti, ritenendo che

nell’espressione πρὸς τοῦτον ἡ σκέψις non si tratti di «discussione con un avversario», ma di «esame relativo a questo argomento» (πρὸς τοῦτον sc. λόγον) avente per oggetto «il nulla». Si veda il contesto del tutto analogo di Phys. 185b22-25 in cui ugualmente si discute di un «argomento concernente il nulla» (λόγος [...] περὶ τοῦ μηδέν).

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