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Il problema dell’indescrivibile nelle testimonianze letterarie: Se questo è un uomo di Primo Levi e Un mondo a parte di Gustaw Herling-Grudziński

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ISSN 2083-5485

© Copyright by Institute of Modern Languages of the Pomeranian University in Słupsk

Original research paper Received: Accepted:

30.10.2016 3.02.2017

IL PROBLEMA DELL’INDESCRIVIBILE NELLE

TESTIMONIANZE LETTERARIE: SE QUESTO È UN UOMO

DI PRIMO LEVI E UN MONDO A PARTE

DI GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI

Olga Kutzner

Università Niccolò Copernico Toruń, Polonia olgakutzner@gmail.com

Parole chiave: l’indescrivibile, Primo Levi, Gustaw Herling-Grudziński, lager, gulag

1. Introduzione

Se questo è un uomo di Primo Levi e Un mondo a parte di Gustaw Herling-

-Grudziński documentano le realtà di due campi di concentramento: il lager di Au-schwitz e il gulag in Archangel’sk1. Entrambi gli scrittori affrontano lo stesso pro-blema: quello di trovare il modo giusto per esprimere le proprie esperienze. Descri-vono minuziosamente l’ambiente, gli oggetti, la routine che viDescri-vono i detenuti, però per rappresentare una realtà tanto violenta non basta soltanto documentarla. Sia Levi che Grudziński dedicano molta attenzione alla ricerca del linguaggio che possa esse-re compesse-reso dal lettoesse-re. Lo scopo del pesse-resente articolo è di metteesse-re in luce alcune delle strategie che gli servono per affrontare il problema dell’indescrivibile.

2. Le testimonianze letterarie

Il racconto sull’esperienza concentrazionaria si colloca tra testimonianza, verità e scrittura. Questa relazione triangolare descrive la cosiddetta letteratura

concentra-zionaria, la quale si allontana da una semplice testimonianza. Il dovere di

racconta-re, considerato la prerogativa dei sopravvissuti, presume il principio etico, cioè quel-lo di fedeltà ai fatti [Sessi 1998: 17]. Ogni testimonianza, se è credibile, è un documento. La finzione letteraria traccia il limite insuperabile tra la realtà ———————

1 Per una discussione di comparare la Shoah con altri genocidi si veda Traverso [2006: 125-158].

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e l’illusione. Il documento si basa sui fatti, la letteratura invece crea illusione2. In più la profonda convinzione della soggettività della scrittura letteraria impedisce di arri-vare alla verità [Czapliński 2013: 25]. Nel 1997 Domenico Scarpa nel suo saggio dedicato a Levi e Herling-Grudziński nota che è possibile trovare «una congruenza tra etica ed estetica» [Scarpa 1997: 10]. Secondo la critica odierna i libri analizzati fanno parte del canone letterario del ‘900, anche se in Se questo è un uomo e Un

mondo a parte gli autori non narrano le vicende immaginarie, ma raccontano gli

eventi storici, vissuti in prima persona. Superando i limiti della cronaca, gli scrittori giungono alla verità sul sistema, sull’uomo e sulla sua condizione portata all’estremo. Cesare Segre scrive sul libro di Levi:

Si ha ritegno a giudicare con criteri estetici un libro che ha dietro tanta sofferenza perso-nale, e milioni di morti (dopo Auschwitz non si può scrivere poesia, diceva Adorno). Ma Se questo è un uomo ha superato di gran lunga tutti gli scritti analoghi di reduci dei La-ger, è per la sua eccezionale qualità letteraria [Segre 1992: 502].

Pier Vincenzo Mengaldo definisce il libro di Levi «un testo che appartiene in-sieme alla memorialistica e alla saggistica» [Mengaldo 2007: 11]. Andrzej Waśko colloca il libro dello scrittore polacco tra il diario, il saggio filosofico e il romanzo di formazione [Waśko 1997: 94-109]. L’appartenenza dei libri a diversi generi lette-rari è soltanto la scelta della forma data al testo. Come osserva Carlo de Mattei, la forma non cambia la funzione testimoniale [2009: 16].Le sperimentazioni formali possono invece indicare il problema comune per ogni testimone, cioè l’impossibilità di esprimere proprie esperienze.

3. Gli scrittori davanti all’indescrivibile

Nel mondo dei campi di concentramento le parole hanno perso il significato. Gli scrittori che sentono il dovere di raccontare ciò che hanno vissuto si trovano davanti all’indescrivibile3. Il compito di trovare il linguaggio che gli permetta di descrivere situazioni non paragonabili a tutte le loro esperienze precedenti diventa per loro una questione fondamentale. Nella loro opera la lingua non è più un semplice strumento di comunicazione, ma diventa «piuttosto il luogo dei pensieri, il centro dell’orientamento vitale, il colore della visione a cui sono legati» [Tesio 1998: 57]. Lì, nel campo oscuro dei loro ricordi, dove ogni esperienza è estrema, hanno biso-gno di ridefinire i concetti di base, ritrovare il significato di fame e paura. Primo Levi scrive:

Noi diciamo «fame», diciamo «stanchezza», «paura» e «dolore», diciamo «inverno» e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano,

go-———————

2 «Traditionally, fiction has been defined in relation to referentiality as non-referential. While non-fiction refers to reality and is expected to render the truth, fiction is a product of imagina-tion which cannot be tested for truth or falsity» [Farner 2014: 8].

3 Il concetto di incomunicabilità è una questione problematica per tutti i sopravvissuti [cfr. Lucre-zi 2005].

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dendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’intera giornata nel vento, sotto zero con solo indosso camicia, mutande, giacca a brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene [Levi 1989: 130].

Gustaw Herling-Grudziński invece sulla stessa necessità scrive:

Le parole ci invadono, ci divorano, si consolida la folla convinzione che «con le paro-le si possa esaurire tutta, assolutamente tutta la realtà» […]. Per riconquistare il centro fra la realtà e il mistero, e per restituire alla letteratura il suo peso e la sua dignità c’è bisogno del desiderio e della volontà di scrivere, a dispetto di tutto, in una lingua dove ogni parola tenti di dare una risposta alle domande che ogni giorno ci vengono poste da un giudice sconosciuto. (8 IV 1976) [Herling-Grudziński 1992: 83]

4. Il linguaggio documentario: i dati, le parole straniere e le cifre esatte

Sebbene entrambi gli scrittori considerino il linguaggio del campo di concentra-mento povero e crudele, un registro basso adatto soltanto al mondo dei valori capo-volti, rimangono fedeli alla terminologia concentrazionaria. Grudziński parla al let-tore delle categorie dei prigionieri conservando le parole straniere:

Il «bytovik» come il prigioniero al quale parlai, dev’essere distinto dall’ «urka», che è un criminale incallito. Sebbene nei campi di lavoro si possano incontrare «bytoviki» le cui condanne superino i due anni, pure nella gerarchia del campo questi occupano una posizione eccezionale, più vicina ai privilegi del corpo amministrativo […] [Herling- -Grudziński 2003: 27].

Nella rudimentale struttura sociale del campo, i tecnici formavano un’aristocrazia di secondo grado, senza il potere sugli altri prigionieri che toccava agli «urka» ai quali erano affidati i dipartimenti esecutivi dell’amministrazione, ma tuttavia innalzati dai loro privilegi e dal loro modo di vita al di sopra della massa grigia del proletariato dei schiavi [Herling-Grudziński 2003: 201].

Anche Primo Levi con le parole straniere fa conoscere al lettore la topografia e la topologia dei reclusi. Il lager di Auschwitz è costituito da baracche in legno che si chiamano Blocks. In seguito Levi precisa:

[…] v’è il Block 24 è il Krätzeblock, riservato ai scabbiosi, il Block 7 in cui nessun comune Häftling è mai entrato, riservato alla «Prominentz», cioè all’aristocrazia; agli internati che ricoprono le cariche supreme; il Block 47, riservato ai Reichsdeutsche (gli ariani tedeschi, politici o criminali); il Block 49 solo per i Kapos […] [Levi 1989: 25].

Gli scrittori non riducono il valore delle proprie memorie alla descrizione oggettiva dei campi di concentramento. Le parole straniere avvicinano il lettore al mondo de-scritto, introducono l’altro. Herling-Grudziński e Levi assumono in questo caso il

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ruo-lo di guida per un lettore. Tuttavia trovare una parola per descrivere i concetti o cose semplici come il pane o il fatto di alzarsi rimane una questione problematica. In Se

questo è un uomo tale funzione, la svolgono le parole straniere, per esempio:

Molti, bestialmente, orinano correndo per risparmiare tempo, perché entro cinque mi-nuti inizia la distribuzione del pane, del pane-Brot-Broit-chleb-pain-lechem-kenyér, del sacro blocchetto grigio che sembra gigantesco in mano del tuo vicino, e piccolo da piangere in mano tua [Levi 1989: 33].

La migliore definizione si trova nell’ultima riga della citazione, il pane è nello stesso tempo il blocchetto gigantesco del vicino e il tuo pezzettino. La parola pane diventa un segno grafico, privato del suo significato primario, sotto il quale si na-sconde il senso nuovo. Ogni prigioniero chiama il «blocco grigio» nella propria lin-gua, benché il referente sia cambiato. Lo stesso avviene per esempio con la parola

alzarsi:

All’ora della sveglia […] la guardia di notte smonta: accende le luci, si alza, si stira e pronuncia la condanna di ogni giorno: – Aufstehen, – o più spesso, in polacco: – Wstawać. […] La parola straniera cade come una pietra sul fondo di tutti gli animi. «Alzarsi» illusoria barriera delle coperte calde, l’esile corazza del sonno, la pur tormen-tosa evasione notturna, cadono a pezzi intorno a noi, e ci ritroviamo desti senza remis-sione, esposti all’offesa, atrocemente nudi e vulnerabili [Levi 1989: 62].

Non si reagisce alla vecchia parola alzarsi che rievoca il tempo passato, ma al

aufstehen tedesco o al wstawać polacco. Tutte le parole esprimono lo stesso concetto

nella mente degli häftlings: la crudeltà di un altro giorno viene paragonata ad «una pietra» cadente «sul fondo di tutti gli animi». L’autore dedica l’intero capoverso alla descrizione dell’ora della sveglia. Levi introduce una catena delle parole collegate tra di loro con il trattino, come se fossero una parola sola. Un cumulo dei suoni che rappresenta un concetto nuovo. In tal modo cerca di trasmettere il vero significato della parola, di impegnare il lettore nel processo della ricostruzione del linguaggio. La questione fondamentale è capire quale sia la realtà dei campi di concentramento, mostrare come vengono cambiate, persino sradicate, le parole italiane del mondo esterno al campo e come sono diventate inadatte.

Lo stesso problema si potrebbe notare in Un mondo a parte. Herling-Grudziński spesso ripete la parola pane affinché diventi un punto di riferimento, un riconosci-mento, un’appartenenza alla classe dei prigionieri:

Solo gli stachanovisti ricevevano un pasto di mezzogiorno: un mestolo di soia bollita e cento grammi di pane, questo «extra» era arrecato da un portatore d’acqua, sotto la supervisione di un cuoco, in un gran secchio fissato su di una slitta. Gli altri passava-no l’intervallo del mezzogiorpassava-no sedendo intorpassava-no al fuoco collocati in modo da passava-non vedere l’extra degli stachanovisti [Herling-Grudziński 2003: 55].

Sulla stessa pagina l’autore ripete la stessa parola, riportandola con la scrupolosi-tà di chi scrive rapporto:

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Le razioni del pane venivano distribuite quotidianamente secondo le caldaie: terza 700 grammi, seconda 500 grammi e prima 400 grammi. Il pane- a parte il mestolo d’orzo bollito al mattino e la porzione di zuppa leggera la sera- era il nutrimento principale nel campo. Trattenersi dal divorarlo tutto immediatamente dopo averlo ricevuto richiedeva un sovrumano sforzo di volontà. Solo quei prigionieri che ritornavano in cucina dopo il pasto serale, e compravano porzioni aggiunte di minestra dai cuochi scambiandole con oggetti del loro vestiario di prima della prigionia, in rapida diminuzione, potevano met-ter da parte un po’ di pane per il mattino [Herling-Grudziński 2003: 55].

Nel frammento sopramenzionato al pane viene attribuito un valore preciso: la va-luta corrente. La descrizione sembra presa da una relazione antropologica sui costu-mi dei prigionieri. Herling-Grudziński rinuncia al linguaggio patetico, estetizzante. Nasconde il suo ruolo di testimone dietro uno sguardo di narratore oggettivo. Rinun-cia alla tentazione del linguaggio solenne, rimane diffidente nei confronti di una pa-rola ornata.

5. Avvicinarsi al significato della parola: i rimandi intertestuali

La realtà dei campi, in cui domina il male banalizzato [cfr. Arendt 2003], esige in entrambi i casi un linguaggio che oltrepasserebbe quel documentario. La fedeltà ai da-ti, presente nell’uso dei vocaboli stranieri e nel riferimento alle cifre esatte, non basta a rappresentare la realtà crudele. Entrambi gli scrittori sentono il limite di ciò. Sembra quindi che per tale motivo ricorrano alla loro memoria letteraria. In tal modo i campi di concentramento sono presentati come se fossero le realizzazioni degli archetipi dell’inferno, della vittima o del male trionfante [cfr. Des Pres: 1976].

5.1. Primo Levi

Primo Levi, lo scrittore-testimone, ricorre ad autorità: Dante, l’Antico Testamento, Omero, ma anche a Shakespeare, Baudelaire, Dostoevskij e Mann [Dizionario… 2004: 439]. È la memoria delle grandi opere che permette di sostenere l’autonomia interiore, la sovranità minacciata di un individuo [Morawiec 2009: 230]. La necessità del nuovo linguaggio spinge l’autore all’uso dei motivi, dei simboli o delle allusioni letterarie. Le immagini della tradizione testuale fanno parte della memoria collettiva del lettore, così lo avvicinano al giusto significato di concetti descritti. L’opera leviana si basa sulla similitudine, come mostra una delle tanti descrizioni, qui di un prigioniero: «inuma-namente scaltro e incomprensibile come il Serpente della Genesi» [Levi 1989: 104] oppure quando Levi ricorda un esame di chimica e lo considera uguale alla situazione in cui si trova Edipo davanti alla Sfinge [Levi 1989: 110].

L’ Inferno di Dante diventa il modello letterario più evocato dallo scrittore ebreo.

Già dall’inizio del libro porta il lettore nell’inferno dantesco. Il viaggio comincia sulla riva dell’Ade, dove nella macchina delle SS (Schutz-staffeln) si trasportano i prigio-nieri nel campo. E il Caronte, soldato tedesco di scorta, chiede gli orologi invece di un obolo. Tale rappresentazione assume un valore simbolico: nell’inferno non si calcola il tempo. I prigionieri si trovano già «dall’altra parte» [Levi 1989: 10], in una coltre at-mosferica senza tempo. La scena dell’entrare nel lager e del superare il famoso cancel-lo con la scritta Arbeit macht frei fa subito pensare all’omonima scena dell’entrata di

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Dante [Segre 1992: 500].Tuttavia il protagonista non troverà il suo Virgilio e la fun-zione di Cicerone ad un lettore assumerà l’autore stesso.

Bisogna quindi distinguere due figure: Levi, il protagonista smarrito nella nuova realtà (all’inizio del libro, col tempo imparerà a muoversi in questo mondo nuovo) e Levi l’autore onnisciente che dispone di uno sguardo più ampio. «Qui non ha luo-go il Santo Volto,/ qui si nuota altrimenti che nel Serchio» [Levi 1989: 22]. Levi- -protagonista cita la frase del canto ventunesimo, sottolineando la differenza tra la vita nel lager e la vita precedente, e per sopravvivere deve impararla.

Un’altra figura molto importante per Levi è Ulisse. L’eroe mitologico è un viag-giatore archetipico che davanti all’indovinello del destino cerca di trovare la propria strada. Il viaggio diventa così una figura della sorte umana. Intrapreso sia dal re d’Itaca sia da Dante porta ad un mondo sconosciuto, ad un uomo mortale, al regno dei morti [Morawiec 2009: 235]. Ulisse diventa la personificazione di intelligenza in un mondo crudele, senza principi. Uno che grazie ai suoi doti e soprattutto ad astuzia riesce a sopravvivere. Anche Levi debole e disorientato all’inizio del suo viaggio at-traverso il lager «col tempo diventerà simile a Ulisse, si adatterà ai condizioni di campo di concentramento. Alla fine del libro diventerà quasi un demiurgo» [Mora-wiec 2009: 238]. Si trasformerà in inventore, benefattore, medico. Un capitolo «La storia di dieci giorni» assume un valore cosmogonico, è un rinascimento del mondo e della civilizzazione. L’inizio di tale processo è segnato dall’accendere un fuoco, presentato come l’atto di creazione: «Eravamo rotti di fatica, ma ci pareva, dopo tanto tempo, di avere finalmente fatto qualcosa di utile; forse come Dio dopo il primo giorno della creazione» [Levi 1989: 172].

Il mito dell’eroe greco e l’opera di Dante costituiscono per l’autore l’essenza dell’umanità, perché offrono una possibilità di salvarla. Per mantenere la propria iden-tità recita al deportato francese Pikolo frammenti del canto di Ulisse. La recitazione è un atto di ribellione4. Sebbene la memoria lo tradisca e XXVI canto dell’Inferno ri-manga incompiuto, in un certo senso sospeso tra i personaggi, il prigioniero riesce a trasmettere il raggio della libertà rievocando il passato perduto [Segre 1992: 17]. Ri-chiamare alla memoria i versi mancanti risulta un compito essenziale, degno di ogni sacrificio: «Darei la zuppa di oggi per poter saldare “non ne avevo alcuna” col finale» [Levi 1989: 120]. Il capolavoro dantesco rappresenta un ordine, la fonte del senso umanistico, è un racconto sulla pienezza, una risposta per un altro racconto: quello che si svolge nel lager, cioè all’interno della torre di Babele [Morawiec 2009: 237].

I riferimenti biblici non introducono un messaggio religioso. La mescolanza delle lingue, l’impossibilità di comunicarsi, fanno parte di un’immagine biblica della costru-zione della torre di Babele. Una mutua incomprensione è la quotidianità del lager. Levi sta ancora rafforzando quest’immagine con la descrizione della Torre del Carburo:

La Torre del Carburo, che sorge in mezzo alla Buna e la cui sommità è raramente visibi-le in mezzo alla nebbia, siamo noi che l’abbiamo costruita. I suoi mattoni sono stati chiamati Ziegel, briques, tegula, cegli, kamenny, bricks, teglak e l’odio li ha cementati; l’odio e la discordia come la Torre di Babele e così noi la chiamiamo […] e odiamo

———————

4 «Conservare la memoria si potrebbe paragonare alla resistenza che si tentava di esercitare in se stessi per non lasciarsi andare in un sistema spietato […]» [cfr. Najdowska 2012: 129-138].

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in essa il sogno demente di grandezza dei nostri padroni, il loro disprezzo di Dio e degli uomini [Levi 1989: 173].

5.2. Gustaw Herling-Grudziński

Il repertorio di riferimenti letterari di Gustaw Herling-Grudziński è anche molto ricco. L’autore di Un mondo a parte si riferisce ad autori novecenteschi quali: Fëdor Dostoevskij, Joseph Conrad o Daniel Defoe. Lo scrittore polacco «usando il testo estraneo ed interpretandolo rende gli avvenimenti descritti più verosimili, entra nel dialogo con il passato e con la tradizione letteraria» [Morawiec 2000: 39]. Il bisogno di un linguaggio oggettivo e semplice lo spinge alla ricerca delle immagini apparte-nenti alla memoria collettiva. Il giornale di anno della peste di Defoe diventa per lui una delle fonti esemplari, sia a causa del tema: la peste, sia per uno stile oggettivo della scrittura. La tecnica di Defoe dimostra il potere del linguaggio di cronista nelle mani di un letterato. La poetica dell’autore di Un mondo a parte, come quella levia-na, è una poetica di esclusione, priva di libertà letteraria, di sperimentazione forma-le, di ornamenti stilistici e di analisi psicologica dei protagonisti.

La metafora di peste risulta essenziale per l’uso della parola in Un mondo a parte [Waśko 1997: 94-109]. La zona di gulag viene paragonata ad una città nei tempi del-la peste: «Passavamo l’uno accanto all’altro senza dire una parodel-la come del-la gente in una città appestata» [Herling-Grudziński 2003: 44]. Il campo di concentramento di Herling-Grudziński assume le stesse caratteristiche della Londra di Defoe nel 1665, dove la morte è onnipresente e riguarda tutti. I prigionieri ne hanno paura e per que-sto motivo, come gli abitanti della Londra del ‘600, «si evitavano a vicenda per pau-ra di peste» [Herling-Grudziński 2003: 132]. Tutti i prigionieri sono già infetti dalla morte, la portano «sotto cute» [Herling-Grudziński 2003: 132]. Sono coscienti che il decesso nel gulag è anonimo e questa consapevolezza di morire senza lasciare nes-suna traccia li tormenta. Nessuno sa che cosa succeda con i cadaveri innumerevoli:

Non sapevamo dove si seppellissero dei defunti e se dopo la morte di un prigioniero si redigesse qualsiasi certificato di morte […] Si può non essere religioso, non credere nel-la vita ultraterrena, ma è difficile rassegnarsi ad un pensiero che l’unica traccia materiale che prolunghi l’esistenza umane e le concedi la permanenza in una memoria umana, scomparirà definitivamente [Herling-Grudziński 2003: 133].

La forza della metafora sta nelle analogie tra entrambe le esperienze estreme. Porta ad una banale constatazione, che il male è sempre lo stesso. In tal modo, l’immagine della città appestata è la fonte di figure, di idee, con cui lo scrittore po-lacco costruisce il mondo del gulag.

L’altro capolavoro che influenza la scrittura di Gustaw Herling-Grudziński è

Me-morie della casa dei defunti di Dostoevskij, a cui si riferisce già dall’inizio. Un mondo a parte comincia con la citazione, in cui si invita il lettore a quel «mondo a parte»,

do-ve reggono leggi, costumi, abitudini e istinti dido-versi. L’influenza del romanzo russo si divide in due livelli. Nel piano «stilistico» assomiglia alle funzioni dello stile di Defoe. Sul secondo, «morale», Grudziński non è pienamente d’accordo con il messaggio dell’opera russa. In essa la speranza è il sentimento di chi giudica il mondo

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immutabi-le, chi sancisce il valore della sofferenza, come se fosse eterna, e perciò inevitabile nel-la vita umana. È vero che Herling-Grudziński trovi nell’opera di Dostoevskij nel-la ciclici-tà della sorte di prigioniero. La lettura del libro apre gli occhi del protagonista-narratore, lui vede analogie tra la Russia dell’800 e del ‘900. Nonostante ciò, non glo-rifica la sofferenza, al contrario: il suo conforto proviene dalla sua profonda fede nell’umanità. Nel famoso episodio del libro Natalia Lwowna racconta le sue impres-sioni dopo la lettura delle Memorie:

Sono libera, davvero libera! Siamo morti già dagli anni, ma non vogliamo ammetterlo. Pensa: perdo la speranza, quando in me rinasce la voglia di vita, la ritrovo quando sento in me la voglia di morire [Herling-Grudziński 2003: 145].

In una realtà capovolta, dove una negazione sostituisce un’informazione, una con-danna diventa un processo, un effetto precede una causa, anche le leggi della morte e della vita vanno contro un ordine naturale. Lì, vivere consapevolmente significa ras-segnarsi, accettare la morte. Herling Grudziński giudica questa conclusione profonda-mente sbagliata. La tentazione di acconsentire a tale semplificazione porterebbe alla conseguente perdita della fede nell’umanità [Bolecki 2007: 177].

Inoltre una struttura di Un mondo a parte assomiglia a quella di Memorie di casa dei

defunti. I temi e perfino i titoli dei singoli capitoli provengono dal libro russo [Kudelski

1998: 126]. Un intervento comprensibile quando ci si rende conto di un concetto di ripe-titività della sorte umana. Herling-Grudziński continua a raccontare la stessa storia.

L’influenza della scrittura di Joseph Conrad in Un mondo a parte non è diretta. L’autore non cita le opere dello scrittore inglese di origini polacche. Ciò che avvicina i letterati è il culto di carattere e di responsabilità. Herling-Grudziński nel Diario di notte scrive che Conrad rappresenta “il coraggio, soprattutto il coraggio, persino nella dispera-zione” [Herling-Grudziński 1992: 66]. Un mondo a parte è una storia sui valori messi in pericolo dal totalitarismo, ma nello stesso propone un modo di salvarli. È una storia con-radiana sulla fedeltà, sull’onore perduto e recuperato. Un libro sull’umiliazione attraver-so la violenza e sulla catarsi attraverattraver-so fede, speranza ed amore, una scrittura lucida, che include un lato oscuro di ogni vita umana [Kudelski 1998: 207].

Herling-Grudziński come Levi riprende le figure e i temi biblici, però prevalgono quelli del Nuovo Testamento. Infatti il suo gulag è un mondo retto da Satana, il suo re-gno organizzato secondo le leggi capovolte del cattolicesimo. I prigionieri che credono nel marxismo vengono paragonati ai cattolici, li obbliga la liturgia capovolta e la mo-ralità di Łysenko:

L’antica morale della chiesa cattolica e la nuova morale del sistema sovietico hanno in comune la convinzione fondamentale che l’uomo privo di fede-fede nel sistema rivelato dei valori spirituali nel primo caso, o nel sistema imposto dei valori materiali nel secon-do- è un mucchio informe di rifiuti. La rivoluzione di Łysenko ha capovolto le tendenze della Chiesa Cattolica, che difatti sono simili. Lì l’uomo scompare nelle profondità del peccato e della dannazione, qui può essere tale come lo rendono le condizioni naturali cambiati in un mondo artificioso; comunque in entrambi i casi è un oggetto passivo nel-le mani di qualcun altro [Herling-Grudziński 2003: 152].

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Lo scrittore giustifica tale paragone spiegando che per descrivere il gulag deve «scendere nelle profondità dell’inferno» [Herling-Grudziński 2003: 152]. I prigio-nieri di Ercevo, pur essendo defunti, non sono ancora morti nel senso fisico. Vivono sospesi tra vita e morte, reale e irreale, esistere e non esistere, in quella zona oscura, dove si svolge la lotta per i valori fondamentali della civilizzazione umana. Ecco il mondo dei suicidi religiosi, i credenti nella morte del Cristo, che credono nella forza liberatrice della morte. Così come Levi paragona Auschwitz con l’Inferno di Dante, Herling-Grudziński si riferisce all’inferno cristiano.

Il dialogo con grandi opere letterarie, mitologia o tòpos culturali aiuta entrambi gli scrittori non solo a descrivere i fatti, ma anche a ordinare le esperienze, a trovare quel posto unico che dovrebbero occupare nella memoria del lettore. Sono un vero e proprio strumento di comprensione di quel mondo altro. La tradizione serve come un repertorio di idee, senza il quale sarebbe impossibile concepire il mondo descrit-to. Di più la memoria delle grandi opere letterarie è un meccanismo di difesa contro il processo della privazione di identità, contro l’animalizzazione dei detenuti. 6. Le metafore animalesche

L’animalizzazione è una delle maggiori strategie di disumanizzazione. Per questo motivo l’assimilazione agli animali rimane uno tra i più importanti strumenti propa-gandistici del sistema totalitario, una giustificazione dello sterminio. Le persone as-similate agli animali perdono la capacità di un giudizio ragionevole ed autonomo, vengono private di memoria sia individuale, che quella collettiva, legata alla forma-zione e alla cultura. A loro viene attribuita una natura irrazionale e istintiva. Entram-bi gli scrittori cercano di rappresentare anche quella parte della realtà crudele, in tal modo il mondo animalesco diventa per loro un altro repertorio di metafore. Gli häftlings nel libro di Levi vengono chiamati: fattoria sperimentale” [Levi 1989: 25], «cavalli da traino» [Levi 1989: 38], «gregge e canile» [Levi 1989: 69], «spoglie di insetti» [Levi 1989: 37], «cani da slitta» [Levi 1989: 38]. Da una parte dietro questa metafora animalesca si nasconde l’accusa di privare l’uomo di dignità, d’altra parte queste parole permettono di mostrare l’atteggiamento dei nazisti verso i loro prigio-nieri, i nemici da sterminare, che sono nient’altro che un mucchio di vermi fastidio-si. Anche i prigionieri di Un mondo a parte vengono paragonati agli animali. Tutta-via Herling-Grudziński usa queste figure con una sensibilità straordinaria. La descrizione di un prigioniero che «aveva in sé qualcosa dell’uccello, che dopo aver battuto le ali era stato catturato e rinchiuso nella gabbia» [Herling-Grudziński 2003: 279] e che poi «uscì dall’albergo come un uccello con l’ala fratturata e sorvolò la strada» [Herling-Grudziński 2003: 283] rivela la capacità dello scrittore di afferrare un carattere umano con tutte le sfumature e di metaforizzarlo.

7. La metafora del teatro

Rilevante in entrambi i libri è la metafora del teatro. La rappresentazione di un campo come un teatro di orrore e di assurdo è presente sia in Se questo è un uomo che in Un mondo a parte. Levi percepisce la realtà del campo come se fosse uno strano

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spettacolo: «Adesso è il secondo atto» [Levi 1989: 15], «Ci pare di assistere a qualche dramma pazzo» [Levi 1989: 17], «come al sollevarsi di un sipario» [Levi 1989: 39]. La metafora del teatro con le connotazioni di reificazione serve a valorizzare il mondo descritto. La situazione così straordinaria da sembrare astratta e irreale, viene trasfor-mata in messinscena. In tal modo l’irreale si materializza in una forma concreta dell’avvenuto. Un’operazione simile appare nel libro di Herling-Grudziński. Il gulag viene chiamato «una farsa tragica» [Herling-Grudziński 2003: 160], «un pessimo scherzo scenico» [Herling-Grudziński 2003: 159]. Infine il prigioniero di gulag scrive: «Questo teatro non aveva niente a che fare con la finzione, al contrario: sostituiva una vita in ogni dettaglio» [Herling-Grudziński 2003: 106]. Ciò che rende l’esperienza di gulag ancora più irrazionale è il teatro in zona. Organizzare i recital teatrali in un posto del terrore sembra piuttosto un modo di derisione dei prigionieri. Nonostante ciò Her-ling-Grudziński lo chiamerà «un’anticamera della libertà» [HerHer-ling-Grudziński 2003: 139]. Dall’altra parte la metafora del teatro non fa parte soltanto della tecnica lettera-ria, ma costituisce un meccanismo di difesa e come tale si manifesta in varie testimo-nianze della vittime concentrazionarie [cfr. Kępiński 1992].

8. Conclusione

Gli scrittori-testimoni adoperano diverse strategie per risolvere il problema dell’indescrivibile. Creano un nuovo linguaggio adatto al loro racconto, un miscu-glio di parole straniere, rimandi intertestuali, metafore animalesche e teatrali. Il do-vere di raccontare esperienze estreme richiede da parte di entrambi gli scrittori l’uso di un linguaggio documentario misto con riferimenti culturali. Entrare in dialogo con la tradizione significa elaborare consapevolmente un processo di generalizzazione della propria esperienza. La letterarietà di Se questo è un uomo e di Un mondo

a parte sta in questa scelta linguistica compiuta da parte degli autori, i quali non

scrivono una semplice testimonianza, ma cercano di presentare uno studio sull’animo umano che si muove in quella zona oscura dell’annullamento dei valori.

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Summary

The problem of inexpressibility in literary testimonies:

Primo Levi’s If this is a man and Gustaw Herling-Grudziński’s Another world

The aim of the article is to compare how Primo Levi and Gustaw Herling-Grudziński confront the problem of inexpressibility in their literary testimonies: If this is a man and Another world. They are not only the concentration camps witnesses, but also recognised writers. Their testimonies, Levi’s If this is a man and Herling-Grudziński’s Another world, are appreciated not only as historical documents, but also for their literary value. Even though their experiences are incomparable, they use similar techniques to describe them. In order to represent the reality of the concentration camp they use foreign words, numbers, technical terms but also animal metaphors and intertextual references, both Levi and Herling-Grudziński resort to the great authors of the past, like Dante or Dosto-yevski.

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