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Widok "Il Sergente" di Marco Paolini quale adattamento scenico del romanzo di Mario Rigoni Stern

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Wrocław 2009

DAVIDE ARTICO Université de Wrocław

IL SERGENTE DI MARCO PAOLINI

QUALE ADATTAMENTO SCENICO DEL ROMANZO DI MARIO RIGONI STERN

« Piccola Anàbasi dialettale » è la defi nizione con cui nel 1953 Elio Vittorini etichettò il romanzo di un oscuro impiegato del catasto di Asiago, che proprio al- lora veniva pubblicato per la prima volta dall’editore torinese Einaudi. Si trattava de Il sergente della neve di Mario Rigoni Stern, testo che sarebbe poi divenuto una delle pietre miliari della letteratura italiana contemporanea, tanto da essere entrato ormai da tempo in Italia nel novero delle letture per gli studenti della scuola media inferiore.

Io oggi sento ancora più forte la necessità di raccontare questa storia. Eravamo allora nel pieno di una guerra. Oggi siamo in una specie di post-guerra che ci accompagna come un sottofondo, ma senza più voglia di pensieri. E io non mi rassegno al fatto che le lezioni del passato vengano dimen- ticate. Passare attraverso l’espe rienza di una guerra non ti può lasciare umano1.

Con queste parole Marco Paolini spiega perché ha deciso di portare sulle scene teatrali il capolavoro di Rigoni Stern, con uno spettacolo intitolato appunto Il Sergente. Proprio a questo adattamento di Paolini, alla sua genesi ed al suo ina- spettato successo di pubblico, è dedicato il presente articolo. Attraverso la dram- maturgia paoliniana uno dei brani più densi di signifi cati esistenziali di Rigoni Stern si è trasformato in ‘parole pellegrine’, un testo a sé stante, dotato di vita propria e in certa misura slegato dal contesto del romanzo originale.

Sarà opportuno iniziare il lavoro di analisi dell’adattamento teatrale Il Ser- gente da un esame del suo modello di partenza, cioè il romanzo di Rigoni Stern del 1953, corredato da al cune informazioni generali sull’autore. In seguito si tenterà di capire in che modo Paolini ab bia trasformato un brano particolare del testo per adattarlo alla rappresentazione scenica, de codifi candolo con ciò stesso dall’inter- testo costituito dal resto del romanzo. A questo scopo si renderanno pure neces-

1 Dichiarazione attribuita a Marco Paolini da Fabrizio Ravelli, La Repubblica, 30 ottobre 2007.

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sarie alcune informazioni generali sull’autore Paolini, soprattutto ri guardo alla forma scenica da lui preferita, il monodramma, che va a inserirsi in una lunga tra- dizione di letteratura teatrale italiana, che parte dalla tarda produzione di Eduardo De Filippo per arrivare all’opera del vincitore di un Premio Nobel: Dario Fo.

LA « PICCOLA ANÀBASI DIALETTALE » DI MARIO RIGONI STERN Anàbasi è il titolo, parzialmente improprio, dell’opera in sette libri dello sto- rico atenie se Senofonte, redatta agli inizi del III secolo a.C. Il termine greco antico signifi ca letteralmen te ‘spedizione verso l’interno’, ma nel caso specifi co dell’opera va considerato una sorta di antonomasia. Si riferisce infatti soltanto al contenuto del primo dei sette libri, che descrive la spedizione di diecimila mercenari greci – fra i quali si trovava lo stesso Senofonte – nel pro fondo del territorio persiano. Al comando di Ciro il Giovane, che intendeva usurpare il trono di Persia al fratello Ar- taserse II con un colpo di mano militare, i diecimila sbaragliarono le forze nemiche nella battaglia di Cunassa. Nel corso della battaglia, tuttavia, lo stesso Ciro tro vò la morte, sicché ai mercenari venne a mancare il senso stesso della loro spedizione.

Volse ro pertanto in ritirata, cercando di raggiungere un porto sul Mar Nero per far rientro in patria. In questo senso il termine più adatto quale titolo generale dell’ope- ra dovrebbe essere piuttosto katábasis, cioè ‘spedizione verso la costa’.

La ritirata dei diecimila si dimostrò però molto più insidiosa dell’invasione.

Molti dei mercenari greci furono catturati o uccisi, mentre lo stesso Senofonte dovette sforzarsi oltre misura per riuscire a condurre i suoi compagni verso la sicurezza del litorale. Giùntovi, sotto linea in un rapido dialogo il fallimento del- l’impresa attraverso l’ammissione della sua stessa miseria: per tornare defi nitiva- mente a casa, infatti, avrebbe dovuto vendere il suo cavallo o le cose che portava addosso.

I motivi che spinsero Vittorini a paragonare il romanzo di Rigoni Stern al- l’opera di Se nofonte sono certamente contenutistici: Il sergente della neve narra infatti di come lo stesso Rigoni Stern, in qualità di sottuffi ciale degli Alpini, aves- se compiuto sforzi sovrumani per ricon durre a casa gli uomini del suo reparto, precedentemente inviato dal governo fascista ita liano alla cosiddetta ‘campagna di Russia’, cioè l’invasione del territorio sovietico a sostegno delle armate naziste, poi trasformatasi in disfatta dopo la battaglia di Stalingrado. Vittorini aveva però an che ragioni di ordine strettamente linguistico. Come l’Anàbasi viene conside- rata a tutt’oggi un esempio di prosa semplice e lineare, che si presta alla lettura anche dei princi pianti nello stu dio del greco antico, così il romanzo di Rigoni Stern è redatto in una lingua di descrizioni di rette e immediate, spesso intercalate da calchi o prestiti dialettali.

Mario Rigoni Stern nacque in una località sull’Altopiano di Asiago, in pro- vincia di Vi cenza, nel 1921. Nel 1938 divenne allievo sottuffi ciale alla scuola mi-

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litare di Aosta, per poi essere incorporato in reparti combattenti fi n dall’ingresso in guerra dell’Italia nel giugno 1940. Combattè dapprima sul fronte francese, per essere poi mandato in Grecia, nei Balcani e, infi ne, assegnato alla cosiddetta Ar- mata Italiana in Russia, cioè il corpo di spedizione inviato a sostegno delle truppe naziste che avevano invaso l’Unione Sovietica. Sopravvissuto alla tra gica ritirata, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fu internato in un campo di prigionia te- desco in Prussia Orientale, insieme con circa 44 mila altri militari italiani2.

Tornato a casa dopo la fi ne della guerra, Rigoni Stern trovò lavoro come semplice im piegato del catasto di Asiago. Aveva però con sé le sue memorie della

‘campagna di Rus sia’, raccolte in un manoscritto che aveva steso durante la pri- gionia e che rimase inedito fi no al 1953, quando appunto lo scoprì Vittorini che lo vol le far pubblicare da Einaudi proprio con il titolo Il sergente della neve. Da allora il tema della guerra e, soprattutto, delle persone comu ni che la guerra subi- scono, divenne uno dei motivi conduttori dell’attività letteraria di Rigoni Stern.

Ecco come, ad esempio, l’autore giunse in seguito a descrivere il trauma del suo inter na mento nel campo di prigionia tedesco:

Il Lager avrebbe dovuto restare dietro le spalle, lontano; in una landa della Polonia. Ma non era perché le baracche allineate nei blocchi, i reticolati con sopra, alte come su trampoli, le torrette delle mitragliatrici mi seguivano. Camminavo da centinaia di chilometri e attorno restavano sem- pre queste cose: mi attorniavano come un abito. Reali, non di impressioni o di aria, e non riuscivo a liberarmene3.

Ancora di recente, ad oltre mezzo secolo di distanza dalla prima edizione de Il sergen te della neve, sono apparsi altri volumi dedicati allo stesso argomento4. Altro tema ricorrente di Rigoni Stern, presente già in maniera accenna ta ne Il sergente della neve ma ulteriormente sviluppato nei lavori più recenti dell’autore, deceduto il 16 giugno scorso, è quello dell’azione destruente della guerra sui lega- mi umani all’interno della società e sul con seguente crollo dei valori tradizionali, non per forza di matrice religiosa, come la solidarietà fra vicini e fra le diverse generazioni5.

MARCO PAOLINI E IL MONODRAMMA

I monodrammi di Marco Paolini si inseriscono in una corrente di letteratura teatrale che ha visto in Italia l’emergere di numerosi elementi originali. Defi nito

2 Il dato numerico sugli internati militari italiani in Prussia Orientale è desunto da: Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943–1945, Uf- fi cio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 1997, p. 411.

3 M. Rigoni Stern, « La scure », [in:] idem, Ritorno sul Don, Einaudi, Torino 1973.

4 Idem, Quel Natale nella steppa, Interlinea, Novara 2006; idem, I racconti di guerra, Einau di, Torino 2006.

5 M. Buzzi, Invito alla lettura di Mario Rigoni Stern, Mursia, Milano 1985, passim.

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oggi ‘teatro narrazio ne’, come se fosse un genere nuovo, il monodramma nella realizzazione paoliniana ha radici ben profonde che possono essere fatte risalire quanto meno al Mistero buffo (1969) di Dario Fo, se non addirittura alle ultime opere di Eduardo De Filippo.

La fi gura di Eduardo non necessita di presentazioni, essendo stata analizzata in nume rose monografi e6. È proprio nell’ultima opera di Eduardo, Gli esami non fi niscono mai, che compare un personaggio che potremmo defi nire quale antesi- gnano del teatro narrazione. Gu glielmo Speranza spesso non ha altro ruolo che quello di parlare direttamente al pubblico per giungere a un procedimento di iden- tifi cazione del pubblico stesso con l’eroe rappresentato dal medesimo Speranza.

Guglielmo infatti, nei suoi monologhi, pare voler interpretare le nostal gie e le aspettative di un interlocutore che è il pubblico in sé, quale entità collettiva. Par- rebbe quasi che, attraverso Guglielmo Speranza, Eduardo intendesse trasformare l’esperienza quoti diana in coscienza epocale.

La storia di Guglielmo è quella, che si vorrebbe tipica, di un italiano di classe media che passa attraverso gli studi universitari, la carriera professionale, la co- struzione di una fami glia rispettosa dei valori conservatori e tradizionali, soltanto però per trovarsi poi deprivato di tutte le illusioni e, nomen omen, le speranze. La sua stessa morte sembra infi ne essere un di spetto, un atto di disobbedienza com- piuto contro un mondo che pare capace soltanto di tarpare le ali all’individuo ed alle sue, pur modeste, ambizioni. Non è tuttavia, in questa sede, lo spes sore psi- cologico del personaggio ciò che più ci interessa. Molto più indicativa, in quanto in un certo senso annuncia lo stile del teatro narrazione, è la rarefazione ai limiti dell’essenziale dei mezzi scenici. Come entra infatti in scena Guglielmo?

Indossa un qualsiasi vestito da mattina e reca nella mano sinistra tre barbe fi nte: nera, grigia e bianca. Queste tre barbette posticce saranno di quelle che i comici guitti di un tempo, per rendere velocissime le loro trasformazioni, usavano fermare sui loro volti mediante cordoncini elastici e resistenti fi li color rosa confetto7.

Di questo ci informa lo stesso Eduardo. Vero dunque che Gli esami non fi ni- scono mai non è un monodramma in senso stretto, ma è anche vero che il perso- naggio di Guglielmo Speranza, pur inserito in un’infabulazione con svariati altri personaggi, interagisce pochissi mo con loro; parla soprattutto agli spettatori, e questo in maniera diretta; infi ne si comporta non tanto da personaggio, quanto da guitto. È insomma un attore che rivela il suo essere atto re: non sta fi no in fondo alla fi nzione scenica che lo vuole personaggio, ma si tradisce portan do in mano le barbe-maschere che lo dicono, appunto, attore e che divengono gli unici suoi at tributi scenici indispensabili, visto che il costume è ridotto a un semplice vestito da mattina.

6 Si veda a titolo di esempio: A. Barsotti, Introduzione a Eduardo, Laterza, Roma–Bari 1992;

l’opera con tiene fra l’altro un’importante parte bibliografi ca alle pp. 181–195.

7 Per testo e paratesto delle opere di Eduardo ci si può riferire fra gli altri a: Teatro. Eduardo De Filippo, a cura di Nicola De Blasi, Mondadori, Milano 2000.

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Non si può a questo punto che essere d’accordo con la critica: « L’arte del- la commedia è diventata ora per Eduardo arte di rappresentare direttamente, in prima persona, la sua storia come storia del suo pubblico, e del suo rapporto col pubblico »8.

Arrivando a Paolini, nato a Belluno nel 1956, conviene sottolineare un dato di fatto che egli stesso ripete: « È dal Teatro che nascono i suoi libri, i racconti radiofonici e i passaggi televisivi che l’hanno fatto conoscere al grande pubbli- co »9. Questa genesi del suo personag gio multimediale è stata narrata dallo stesso Paolini ad esempio in L’anno passato, in cui prova a « raccontare come nell’arco di un anno teatrale (più breve di quello solare) lo spettaco lo si è modifi cato attra- verso il viaggio e la ripetizione giorno per giorno, città dopo città »10. A livello di intertesto si può affermare che la pubblicazione stessa di un diario del personag- gio Paolini da parte dell’autore Paolini costituisce una dichiarazione di intenti in direzione dell’annulla mento del confi ne fra personaggio e pubblico. Raccontare i retroscena degli spettaco li tende ad azzerare la differenza fra il Paolini personag- gio, il Paolini attore e il Paolini auto re; tende poi anche a coinvolgere il pubblico nell’atto teatrale e, con ciò stesso, a farne la con troparte in un dialogo con tutte e tre le dimensioni sopra ricordate. Paolini così smette di esse re prodotto mediati- co in quanto personaggio di monodrammi perché, anche attraverso il ‘qua der no’

su L’anno passato, si presenta come attore in carne ed ossa, alle prese con varie diffi coltà fi nan ziarie e organizzative, nonché come autore alla ricerca di continua ispirazione. Vo lendo cer care un parallelo, si potrebbe dire che, come Guglielmo Speranza, il personaggio non cela di essere attore, così come l’autore Eduardo fu sempre anche in pectore l’attore Eduardo.

Il ‘teatro narrazione’ paoliniano, dunque, assume i tratti del monodramma che, nelle intenzioni, dovrebbe portare alla presa di coscienza da parte del fruitore del prodotto culturale ‘teatro’. In questo non si può che individuare un procedi- mento simile a quanto avviene nel Mistero buffo di Dario Fo. Mistero buffo, de- fi nito dall’autore stesso una « giullarata popola re »11, è nel medesimo tempo sia una sorta di opera divulgativa sulla storia del teatro italiano, dal la comparsa dei vari Zanni all’epoca d’oro della Commedia dell’Arte, sia un esempio com piuto di opera in cui l’autore-attore occupa da solo l’intero spazio scenico, divenendo egli stesso « giullare del popolo in mezzo al popolo ».

Su questa falsariga molti dei successivi spettacoli di Fo saranno intesi soprat- tutto come incontri provocatori. L’aggettivo ‘provocatorio’ evidenzia in questo contesto una notevole ambiguità semantica. Lo si può intendere come provocazio- ne politica diretta contro quegli strati della società borghese che l’autore intende

8 F. Angelini, Il teatro del Novecento da Pirandello a Fo, Laterza, Bari 1976, p. 143.

9 Questa dizione appare di solito in terza di copertina dei libri di Paolini.

10 M. Paolini, L’anno passato, Ed. Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2000.

11 D. Fo, Mistero buffo. Giullarata popolare, a cura di Franca Rame, Einaudi, Torino 1997.

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criticare, ma anche come stimolo alla rifl es sione proposto al pubblico12. Non a caso questo tipo di sfruttamento dello spazio scenico a sco pi pedagogici e, se si vuole, propagandistici è stato defi nito « teatro meeting »13.

Andando a indagare l’aspetto tematico del ‘teatro narrazione’ di Marco Pao- lini, non si può evitare di riscontrare anche in esso alcuni tratti di impegno sociale e, in senso lato, liber tario. Non è questa la sede per condurre un’analisi dettaglia- ta del monodramma che ha dato inizio al successo di pubblico di Paolini, quel Racconto del Vajont che riprendeva una delle tante vergogne pubbliche dell’Ita- lia del dopoguerra14. Sarà forse più opportuno isolare alcuni temi generici che consentano, ove il caso, di paragonare la poetica dell’impegno paoli niano con i contenuti proposti da altri, Dario Fo in primis. Paolini infatti, quale interprete del la co scienza epocale e ‘censore’ dell’etica forse troppo elastica dell’Italia del dopoguerra, è molto di più del Paolini che infabula e commenta la vergogna mo- rale e la tragedia collettiva (due mila morti e cinque interi paesi completamente distrutti) susseguenti al crollo della diga del Vajont. Il testo sul Vajont ha sicura- mente proiettato Paolini in una dimensione pubblica che fi no ad allora non aveva avuto, e ciò soprattutto grazie alla diretta televisiva del 9 ottobre 1997. A dispetto della fama televisiva Paolini è però piuttosto un autore che raccoglie ‘dalla strada’

varie espressioni stereotipate e vari atteggiamenti farisei dei suoi conterranei per poi stigmatizzarli nel corso dei suoi spettacoli. Ne è un esempio la defi nizione stessa di « taverni coli » utilizzata in Bestiario veneto, lavoro teatrale poi riassunto anche in volume15.

Il riferimento ai conterranei di Marco Paolini necessiterà forse di una pre- cisazione. Paolini non smette mai di essere veneto. Non si tratta soltanto di una questione linguistica, di quelle espressioni dialettali di cui infarcisce i suoi testi, o in generale di una sorta di esibizio nismo delle radici che lo porta continuamen- te a evidenziare con l’accento quale sia la sua ter ra d’origine. L’essere veneto di Paolini si trasforma in una cosciente dichiarazione di poetica che riguarda lo spazio ideale in cui è circoscritto il suo mondo. È uno spazio compreso fra la Ga- lassia Pedemontana e la Laguna Mondo, cioè quella zona dell’Italia di nord-est che, nel l’ultimo mezzo secolo, ha subito una velocissima e niente affatto organica trasformazione da provincia profonda, fatta di emigrazione forzata da campagne incapaci di sostenere famiglie troppo numerose, in zona ad altissima concentra- zione di piccole e medie imprese artigianali e industriali, dallo sviluppo urbani- stico anarchico e contorto. Quella che si stende fra i primi ri lievi prealpini del nord-est e i grossi impianti industriali di Mestre e Porto Marghera è una campagna urbanizzata, che Paolini ha scelto come scenografi a d’ispirazione.

12 M. Gurgul, Teatr Daria Fo, Universitas, Kraków 1997, pp. 108–109.

13 F. Angelini, op. cit., p. 148.

14 M. Paolini, G. Vacis, Il racconto del Vajont, Garzanti, Milano 1997.

15 M. Paolini, Bestiario veneto, Ed. Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1999.

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È così che egli stesso la descrive in rapporto al Bestiario veneto:

Per questo Bestiario non ho girato solo le pagine, ma anche le strade, le campagne sopraedifi - cate, i cen tri storici disurbanizzati e le aree industriali e artigianali. Posti visitati qua e là in questa provincia grande come una metropoli, ma senza il motore, senza il sistema circolatorio, nervoso, muscolare, senza l’ossatura di una me tropoli16.

Sarebbe troppo semplicistico, a questo punto, relegare Paolini al ruolo di can- tastorie locale che, quasi in omaggio a un moderno Strapaese, canta il Veneto e l’essere veneti. L’uso stesso del termine « provincia » nella frase citata è quanto mai connotativo. Non si tratta di un’unità amministrativa, ma di una forma men- tis. La « provincia » di Paolini è quasi sinonimo di provincialismo, di mentalità ristretta e farisea. Simboleggiata fra l’altro proprio dai « taver nicoli », cioè da tutte quelle persone che, memori – per esperienza diretta o per lessico fami glia re – della miseria storica delle campagne venete, ora che hanno notevolmente mag- giori risorse economiche altro non fanno che pensare a una casa di proprietà con la ‘tavernetta’, cioè un locale seminterrato che serva per occasioni conviviali, liba- gioni incluse. Persone che però, a dispetto dello status sociale superiore rispetto a un passato recente, non hanno mutato l’ap proccio materialista ed opportunista che risulta tipico di chi viva in condizioni di bisogno. Sono insomma rimasti ‘caverni- coli’, cioè persone dominate dagli impulsi umani più basilari e meno raffi nati.

Paolini insomma, come il Dario Fo più libertario, denuncia gli scandali. Porta sulla scena il Vajont. Ma oltre a questo (si direbbe: ancor prima di questo) affronta il problema fon damentale dell’assiologia dell’Italia d’oggi. Risale alla fonte, cer- cando le cause in senso lato culturali che portano ad effetti deleteri, di cui la trage- dia della diga non è che un esempio. Questa stigmatizzazione di una cultura fatta di opportunismo e cinico materialismo va di pari passo con la ricerca di modelli positivi da proporre in alternativa. Tali modelli provengono spesso dai capolavori della letteratura italiana contemporanea, in special modo da quelli di autori noti per il loro impegno sociale. Un esempio recente è il disco in cui Paolini, accompa- gnato dal complesso musicale Tanit, recita quattro racconti tratti da Marcovaldo di Italo Cal vino, dando voce in questo modo all’epopea dell’immigrato, sradicato dal suo ambiente natu rale per andare a fare l’operaio in una grande città dell’Italia settentrionale17.

IL SERGENTE DI PAOLINI

Nel gennaio del 1999 Paolini, insieme con il regista Carlo Mazzacurati, si recò in una sorta di pellegrinaggio a Piovene, sull’Altipiano di Asiago, per incontrare di persona Rigoni Stern. Ecco come lo stesso Paolini ricorda quell’esperienza:

16 Ibidem.

17 I. Calvino, Marcovaldo ovvero le stagioni in città, letto da M. Paolini, Full Color Sound, Roma 2003.

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La casa di Rigoni da fuori pare quella di Biancaneve.

Il vecio è cordialissimo. Parla un bell’italiano non ostentato, semplice e melodioso. Non ci viene da usa re il dialetto, ma si sente sotto come un cuscino, l’esperienza delle cose, delle mani, dei luoghi, della memoria, delle parole18.

Paolini afferma anche che « i libri di Rigoni riletti in altipiano sono ancora più belli »19. È una specie di dichiarazione di intenti letterari, nella quale si evi- denzia l’apprezza mento per la dimensione linguistica, fatta di interpolazioni dia- lettali (l’utilizzo dell’affettuoso termine vecio, letteralmente ‘vecchio’ ma spesso usato per riferirsi a un parente anziano) ma fatta an che e soprattutto di calchi, quel « cuscino » che informa a sé la stessa struttura sintattica della comunicazione verbale. Vi si evidenzia anche la passione per contenuti legati alla vita quoti diana, concretizzati in libri che si leggono ancora più volentieri nei luoghi in cui erano stati originariamente concepiti. Da questa dichiarazione di poetica sarebbe scatu- rita la prima opera paoliniana dedicata al romanzo di Rigoni Stern.

Rigoni Stern accettò di farsi intervistare da Paolini. L’intervista ebbe luogo ai primi di febbraio del 1999 al rifugio Malcesina e venne ripresa da Mazzacurati in una pellicola in bian co e nero20. Fu il primo passo verso l’allestimento del monodramma Il Sergente. La tappa suc cessiva fu un viaggio del 2004 che portò Paolini nel bacino del Don, cioè nei luoghi in cui si erano effettivamente svolte le vicende narrate nel romanzo di Rigoni Stern. Il viaggio, di cui Paolini ha recente- mente pubblicato in volume un resoconto secondo l’ormai collaudata for mula del coinvolgimento dello spettatore nel divenire dell’atto teatrale, fu un viaggio alla sco perta della genesi stessa dell’opera di Rigoni Stern. Dice Paolini:

Abbiamo un’idea esotica della steppa, dei cosacchi del Don. Devo andare laggiù. Sicuramente nel ’40 quei territori erano più selvaggi di come li vedrò io, meno coltivati estensivamente, ma qual- cosa troverò. Viag giare attraverso la Russia in modo un po’ clandestino è qualcosa di potente come l’India o l’Africa21.

Dall’intervista a Rigoni Stern e dal susseguente viaggio sul Don nacque un mono dramma che nel 2005 Paolini iniziò a presentare su diversi palcoscenici ita- liani. Ve ne furono di importanti, come quello del Teatro Duse di Bologna o quello del Teatro Argentina di Ro ma. Ancora una volta però il successo defi nitivo della pièce paoliniana derivò da un suo ulteriore adattamento per la televisione. Il 30 ottobre 2007 Paolini allestì il suo spettacolo in una cava di pietra abbandonata a Zovencedo, sui Monti Berici nei pressi di Vicenza. La scelta della scenografi a naturale della cava fu così spiegata da Paolini: « Mi pare perfetta per raccon tare una discesa oltre ogni limite, al fondo della condizione umana, come quella che racconta Rigoni »22.

18 M. Paolini, L’anno passato, p. 59.

19 Ibidem, p. 63.

20 C. Mazzacurati, M. Paolini, Ritratti: Mario Rigoni Stern, Jolefi lm, Padova 1999.

21 M. Paolini, Quaderno del Sergente, Einaudi, Torino 2008.

22 Dichiarazione attribuita a Marco Paolini da Fabrizio Ravelli, La Repubblica, 30 ottobre

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Lo spettacolo, trasmesso in diretta televisiva, fu seguito da circa 1 232 000 spettatori23. Era una versione ampliata del testo originale previsto per il teatro.

Come quest’ultimo com prendeva però anche vasti interludi dedicati proprio al viaggio di Paolini sul Don, risultando in un monodramma della durata di circa due ore e quaranta minuti. La parte da ritenersi adat tamento in senso stretto del romanzo di Rigoni Stern dura invece poco più di 100 minuti24.

Proprio da quest’ultima parte più direttamente ispirata da Il sergente della neve del 1953 sarà interessante analizzare un brano emblematico, della durata di cinque minuti circa, pubblicato anche su CD-audio25. Nel monologo Paolini si immedesima con un « soldatino » che canta « dondolando gli scarponi seduto con le gambe ciondoloni sulla tradotta che parte da To rino ». Cita poi un « fatto del febbraio 1943 », che consiste semplicemente nella perifrasi di un passo partico- larmente toccante del romanzo di Rigoni Stern: il Sergente, affamato, corre verso una izba russa, in cui soldati « con la stella rossa sul berretto » stanno consumando un magro pasto in comune. Sia il militare italiano sia quelli russi sono armati, ma nessuna delle due par ti accenna ad atti ostili. Il Sergente, parlando in un russo approssimativo, dice di voler man giare. Una delle donne presenti gli porge una specie di zupa mleczna, fatta di « latte e miglio ». L’italiano la mangia avidamen- te, ringrazia ed esce indisturbato26.

Confrontata con l’originale, la versione paoliniana evidenzia una sintassi an- cora più semplifi cata di quella di Rigoni Stern, con periodi ellittici del verbo che si susseguono quasi come immagini di un fotomontaggio. La differenza principale si riscontra però nella conclu sione dell’episodio. Ecco che cosa Paolini racconta all’uditorio: « E oggi, a pensarci, non lo trovo affatto strano; sono entrato, ho chiesto permesso... In quel momento non eravamo ne mici ». Si tratta di una sintesi laconica, certamente adatta alla trasmissione orale, da confron tarsi con la versione estesa, destinata alla lettura, che propone invece Rigoni Stern:

Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata fra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto di più del rispetto che gli ani- mali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circo stanze avevano portato gli uomini a saper restare uomini27.

Risaltano nel testo di Rigoni Stern gli accenni quasi fi losofi ci, tanto al ‘buon selvag gio’ di Rousseau quanto all’homo homini lupus di Hobbes. Una volta, cioè in un’astorica era mitologica – suggerisce Rigoni Stern – dev’esserci stata fra

23 R. Celi, « La 7 sorprende nella sfi da degli ascolti con Il Sergente di Marco Paolini », La Repubblica, 31 ottobre 2007.

24 M. Paolini, Quaderno del Sergente.

25 M. Paolini, « Il sergente nella neve », [in:] idem, Sputi, Sony, Milano 2004.

26 M. Rigoni Stern, Il sergente della neve, Einaudi, Torino 1982, pp. 148–149.

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gli esseri umani una solidarietà spontanea, che in occasioni straordinarie, come quella ricordata, riaffi ora in modo naturale. È una solidarietà che non ha niente a che vedere con gli « armistizi », cioè con una cessazione delle ostilità che però non si accompagna necessariamente alla fi ne dell’odio. Non è natural mente un caso che l’autore parli di armistizio prima di introdurre gli animali della foresta.

La bestialità dei nazisti nei confronti dei soldati italiani dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 era qualcosa che Rigoni Stern aveva sperimentato in prima per- sona. Ne deriva dunque un parago ne inespresso fra le belve hitleriane e invece i

‘selvaggi compassionevoli’ dell’Armata Rossa, che prendono i pasti insieme a donne e bambini e, in modo quasi evangelico, non si tirano indietro quando viene chiesto loro di nutrire gli affamati.

Come si è visto, Paolini sceglie di non introdurre queste considerazioni nel suo mono dramma. La scelta è dettata anche da esigenze prettamente sceniche. La paratassi che giustap pone l’ingresso nell’izba, il chiedere permesso e il non essere nemici è molto più adatta alla trasmissione orale di quanto lo sia la pur semplice sintassi dell’originale. Si può tuttavia sup porre che la scelta paoliniana vada anche nella direzione di una sintesi quasi epigrammatica del pensiero originale di Rigoni Stern, proprio allo scopo di comporre ‘parole alate’ da memo rizzare autonoma- mente, al di fuori del contesto specifi co della diretta esperienza di guerra dell’ex sottuffi ciale degli Alpini.

Una sintesi simile era stata del resto proposta dallo stesso Rigoni Stern. Nel fi lm diret to da Mazzacurati lo scrittore affermò: « Ho chiesto permesso, come si bussa davanti a una porta chiusa. E da quel momento che io ho chiesto di entra- re, loro mi hanno accolto: non ero più un nemico, ero un disgraziato che aveva fame »28.

« Sono entrato, ho chiesto permesso... In quel momento non eravamo ne- mici ». Quella dell’adattamento paoliniano è una sentenza lapidaria che né porge il fi anco a critiche di ecces siva russofi lia né, in genere, si pre sta a valutazioni di merito sui fatti del 1943. Rigoni Stern invece vi indugia, ricordando a più riprese chi fosse l’aggressore e chi l’aggredito durante i combattimenti fra soldati italiani e soldati sovietici nel bacino del Don. Afferma l’autore:

La nostra guerra era sempre una guerra di aggressione verso gli altri. Siamo andati noi a por- tare offesa agli altri, e gli altri si sono difesi. (...) Io non ho mai considerato nemico quel che mi era davanti. Eravamo noi i nemici loro. Veramente noi eravamo i loro nemici, ma loro non erano nostri nemici. (...) I Russi intanto erano dalla parte della ragione e combattevano convinti di difendere la loro terra, le loro case, le loro famiglie29.

Come si accennava sopra, la sintesi paoliniana porta invece ad estrapolare l’avveni mento specifi co dalla realtà complessa e dolorosa della ‘campagna di Russia’ dei soldati ita liani, per farne invece una sorta di aneddoto che esemplifi -

28 C. Mazzacurati, M. Paolini, Ritratti.

29 Ibidem.

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chi in modo assoluto l’assiologia della solida rietà fondamentale fra esseri umani e della rinuncia alla violenza come mezzo per risolvere le controversie.

L’attualità di questo tema, così presente nell’adattamento paoliniano, non è del tutto estranea nemmeno all’autore del romanzo originale. Sostiene infatti Rigoni Stern:

Tante volte la lezione dei sopravvissuti non serve, perché abbiam visto che poi la guerra ha ripreso. Ha ripreso in giro per il mondo a ogni latitudine. E allora anche a chi è sopravvissuto al Lager, chi è sopravvissuto a campi di concentramento, chi è sopravvissuto a battaglie e vede ripetersi queste cose, gli viene da dire: ma la gente non capisce proprio niente!30

Nell’adattamento di Paolini, tuttavia, l’universalizzazione dell’imperativo etico della rinuncia alla violenza ed all’aggressione è molto più marcato che ne Il sergente della neve di Rigoni Stern, proprio perché tale imperativo morale viene destoricizzato, tolto dal contesto delle azioni belliche del 1943 ed elevato a prin- cipio fondamentale di comportamento. In que sta luce vanno interpretate anche le dichiarazioni di Paolini riportate in precedenza, su quel l’odierna « specie di post- guerra che ci accompagna come un sottofondo ». Il Sergente paolinia no, cioè, par- la alla lettera della II Guerra Mondiale, ma ammicca anche – in modo nemmeno troppo implicito – a tutte quelle altre guerre, molto più recenti, in cui soldati italia- ni sono stati mandati a invadere ed occupare Paesi stranieri. La disquisizione sui valori di riferi mento non può dunque limitarsi ai soli russi con la « stella rossa sul berretto », ma deve arrivare a inclu dere tutti i possibili ‘nemici’, che smetterebbe- ro di essere tali se sol tanto si chiedesse permes so prima di entrare a casa loro.

CONCLUSIONI

Come nel caso dell’ultima produzione di Eduardo, anche per Paolini il mo- nologo sce nico serve per proporre al pubblico, sotto forma di racconto biografi co od autobiografi co, con siderazioni esistenziali e un’assiologia imperniata su valori fondamentali e non negoziabili, benché non legati a nessuna confessione religiosa in particolare. Paolini si serve della forma del monodramma o – secondo un’altra defi nizione – del ‘teatro narrazione’ per veicolare il suo messaggio artistico. In alcuni casi i monodrammi di Paolini hanno previsto anche allesti menti adatti alla trasmissione televisiva in diretta.

In questo Paolini si inserisce in una corrente di letteratura teatrale italiana contempora nea che ha avuto sinora il suo massimo esponente in Dario Fo. Come Fo, anche Paolini mira al coinvolgimento dello spettatore nelle fasi preparatorie dello spettacolo teatrale, ricorrendo a questo scopo a diversi media, fra cui dischi fonografi ci, libri, riprese fi lmate.

30 Ibidem.

(12)

In alcuni casi, fra cui quello specifi catamente analizzato nel presente arti- colo, Paolini mette in scena adattamenti di opere di narrativa di grandi autori italiani contemporanei. Ne Il Sergente si è di fronte all’adattamento – in forma di monodramma – di un romanzo di Mario Rigoni Stern originariamente pubbli- cato nel 1953. L’adattamento paoliniano, slegando in cer ta misura le vicende del protagonista del romanzo dagli avvenimenti contingenti dell’invasio ne italiana dell’Unione Sovietica durante la II Guerra Mondiale, pone in rilievo l’aspetto più prettamente umano dell’esperienza dei soldati. Si tratta di un procedimento che in alcuni passi trasforma interi paragrafi del romanzo in ‘parole pellegrine’, frasi dalla sinteticità quasi epi grammatica come quella citata sopra: « Sono entrato, ho chiesto permesso... In quel momento non eravamo nemici ».

IL SERGENTE BY MARCO PAOLINI AS A THEATRE ADAPTATION OF A NOVEL BY MARIO RIGONI STERN

Summary

This paper is an analysis of a monodrama by Paolini, Il Sergente, which is an adaptation of a novel by Mario Rigoni Stern published in 1953. Comparing a fragment of the novel with a fragment of the monodrama text, and on the basis of other source materials (for example the fi lm about Pao- lini’s interview with Rigoni Stern), we can prove that the adaptation was a synthesis of the author of the novel’s original message. This synthesis is partly characterised by detaching the main character’s personal experience from the historical context of World War II, in this case the Italian Fascist attack on the Soviet Union. In this way Paolini transformed entire paragraphs of the novel into “winged words” carrying a global moral message against the war and against the use of violence as a solution to confl icts.

Key words: Marco Paolini, Mario Rigoni Stern, monodrama, adaptation

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