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La tradizione religiosa giudaica e la tradizione filosofica greca sono quanto di più antinomico si possa immaginare, essendo la prima intera-mente dominata dalla fede e dal dogma e la seconda altrettanto interamente dominata – quanto meno nelle sue punte più alte – dalla ragione e dal libero esame.

Luciano Pellicani

Vi fu un momento nella storia in cui gli esseri umani – inizialmente pochi individui e poi intere comunità – cominciarono a collocare la conoscenza scientifica del mondo tra le priorità della propria esistenza. Un momento in cui si convinsero che la vita non ha molto senso, se spesa soltanto per soddi-sfare i bisogni fisiologici. Un momento in cui si resero conto che la cono-scenza deve, per così dire, sostenersi da sola, sul piano delle motivazioni e del metodo. Un momento in cui si convinsero che il desiderio di senso dove-va essere soddisfatto facendo affidamento soltanto sull’intelletto e sui sensi.

Un momento in cui decisero di affermare la verità scientifica e filosofica, anche se così facendo mettevano a rischio il proprio benessere, la propria ricchezza, la propria vita. Un momento in cui il loro imperativo etico, che fino a quel momento era stato primum vivere, diventò primum philosophari.

Si trattò di un momento chiave nella storia dell’umanità.

Riconoscere l’importanza di questo momento è, tuttavia, ben più semplice che individuarne la collocazione storica. È piuttosto diffusa l’idea che la scienza abbia una storia breve. Per molti storici, filosofi e sociologi la storia della scienza si riduce a poco più di tre secoli, essendo il suo inizio ricondu-cibile all’opera di pensatori come Copernico, Galileo, Keplero, Cartesio e Newton. L’idea è però controversa, come dimostrano le numerose storie della scienza che iniziano la narrazione dai tempi antichi, se non addirittura prei-storici.1 Evidentemente, esistono diverse accezioni della parola scienza. Un inizio localizzato nella preistoria ha senso solo se includiamo il concetto di

1 A titolo esemplificativo citiamo Fatti essenziali di storia della scienza di Giorgio Tabarroni (1991) per un inizio localizzato nell’antichità e Breve storia delle grandi scoperte scientifiche di Caprara (1998) per un inizio localizzato nella preistoria.

tecnica nel concetto di scienza. Se, invece, riteniamo la speculazione teorica un elemento irrinunciabile dell’impresa scientifica, segue che non può esservi scienza senza linguaggio articolato. L’Homo habilis era in grado di scheggia-re pietscheggia-re e costruischeggia-re capanne, ma non era in grado di parlascheggia-re, almeno nel sen-so in cui intendiamo oggi la parola ‘parlare’. Ciò significa che la tecnica può essere in linea di principio dissociata dall’attività linguistica.

L’Homo erectus e l’Homo sapiens neanderthaliensis parlavano e costrui-vano manufatti, e probabilmente rappresentacostrui-vano linguisticamente l’arte di produrre manufatti, ma non c’è prova che abbiano mai prodotto una specula-zione scientifico-filosofica nel senso odierno della parola. L’Homo sapiens sapiens è il primo, per quanto sappiamo, che abbia messo insieme le tre atti-vità (linguaggio, scienza, tecnica), anche se gli ci sono voluti quasi tutti i centomila anni della sua esistenza per capire fino in fondo gli effetti di questa sintesi. E solo una ristretta minoranza di individui di questa specie l’ha vera-mente capita. La conclusione è che, mentre la tecnica può esistere senza lin-guaggio articolato, la speculazione scientifico-filosofica non può avere luogo senza di esso. Se accettiamo di distinguere i concetti di scienza e tecnica, non abbiamo ancora dissolto tutti i possibili dubbi, ma se non altro la scelta ri-guardo l’inizio della scienza pura o teorica si riduce tra i tempi antichi e i tempi moderni.

Noi siamo propensi a riconoscere le origini antiche di questa forma di co-noscenza. Il perché è presto detto. Possiamo intendere il concetto di ‘scienza’

in due modi diversi, a seconda che concentriamo l’attenzione sul contenuto di essa o sul metodo su cui si fonda. In entrambi i casi, limitare la storia della scienza agli ultimi tre o quattro secoli è, secondo noi, un errore. Se riteniamo scientifiche le conoscenze vere, verosimili, certificate, verificate o non falsi-ficate, appoggiando la scienza sulla categoria della verità, in senso forte o debole, dobbiamo riconoscere che alcune teorie e scoperte dell’antichità sono ritenute valide o significative ancora oggi.

È difficile stilare un elenco completo di queste scoperte, ma è giusto ri-cordare almeno le seguenti: l’idrostatica, i principi di meccanica, le regole per il calcolo di superfici e volumi nelle figure solide, nonché i metodi per risolvere le equazioni cubiche di Archimede; lo studio delle coniche di Apollonio; l’aritmetica a base decimale di Pitagora e il teorema eponimo; la curva di quart’ordine intersezione di un cilindro e di un cono quadrici, la du-plicazione del cubo, la meccanica razionale, gli studi della vite e della carru-cola di Archita; la geometria assiomatica di Euclide; l’ipotesi atomistica di Democrito; la trigonometria e il sistema eliocentrico di Aristarco di Samo; la trigonometria ed il calcolo corretto della circonferenza della terra di

Erato-stene; la precessione degli equinozi, la trigonometria ed il calcolo della di-stanza terra-luna di Ipparco; la catottrica, i principi di meccanica e di idrauli-ca di Erone; l’idea della sfericità della terra e i principi di logiidrauli-ca di Aristotele;

e se si vuole persino l’ipotesi del big bang e della morte calda dell’universo di Empedocle e Zenone (sebbene non basate su osservazioni astronomiche).

E questa è solo una piccola parte delle idee scientifiche prodotte nell’Antichità. C’è chi ritiene che la vera rivoluzione scientifica abbia avuto luogo nella società ellenistica, tra il IV e il II secolo a.C., e che nel XVII se-colo l’umanità sia semplicemente ritornata a queste altezze e forse nemmeno.

Questa tesi è stata sostenuta in particolare da Lucio Russo, ne La rivoluzione dimenticata (2006), opera che si distingue per la mole impressionante di pro-ve documentali alle quali fa riferimento.

L’approccio centrato sulla conoscenza verificata o corroborata produce prove importanti, anche se qualcuno potrebbe ritenerle non conclusive. Esso è talora considerato insufficiente o insoddisfacente, perché implica l’esclusione dalla categoria di scienziato di tutti coloro le cui scoperte sono state successivamente falsificate. Paradossalmente, si potrebbe arrivare a mettere in dubbio lo status di scienziato di un ricercatore moderno e non di uno antico: per esempio, il calcolo della circonferenza terrestre di Eratostene è ancora valido (con un certo margine di approssimazione), mentre l’idea di Copernico che le orbite planetarie sono circolari è stata falsificata.

Per evitare questa trappola, si tende ad accoppiare all’analisi del conte-nuto anche l’analisi del metodo. Così, è scienziato non solo chi produce co-noscenza certificata, verificata, corroborata o plausibile (a seconda delle pro-spettive epistemologiche), ma anche chi, al di là dei risultati, studia i proble-mi con un certo metodo, con un certo abito mentale, per esempio ricorrendo alle certe dimostrazioni e sensate esperienze di cui parla Galileo, piuttosto che alla rivelazione divina o all’autorità.

Il cambio di prospettiva non salva però l’idea che la scienza abbia una sto-ria breve, anzi, svela ancora più chiaramente le origini antiche della scienza, riconducendole alla tradizione filosofica greca. Possiamo trovare nella Grecia antica una legione di intellettuali che cercano di conoscere il mondo e l’uomo attraverso l’uso della ragione e dell’esperienza, in consapevole contrapposi-zione con l’approccio mitologico. Secondo Karl Popper, è ai presocratici che dobbiamo tornare per ritrovare le radici del pensiero scientifico.

Seguiremo il suo consiglio, ma non prima di avere dedicato un cenno all’ontogenia mitico-religiosa di un’altra importante civiltà del Mediterraneo:

quella ebraica. Uno sguardo a questa cultura è necessario, per almeno tre ra-gioni. La prima è che la civiltà occidentale si è retta fondamentalmente, per

millenni, su due gambe: la cultura filosofica greca e la cultura teologica giu-daico-cristiana. È difficile parlare dell’una, senza parlare dell’altra. La se-conda è che la cultura ebraica è stata capace di produrre idee proprie, ma an-che di assorbire e rielaborare miti e leggende provenienti dalle civiltà limitro-fe, soprattutto l’egiziana e l’assiro-babilonese. Perciò, anche prescindendo dall’influenza che l’ebraismo ha poi esercitato in Europa per tramite del cri-stianesimo, si tratta comunque di un termine di confronto importante. Si comprende meglio una visione del mondo scientifica, se la si paragona ad una non scientifica. La terza ed ultima ragione è che l’Antico Testamento, e in particolare la Genesi, è stato considerato per lungo tempo un testo scienti-fico. Ancora oggi, secondo sondaggi piuttosto attendibili, circa la metà della popolazione americana lo considera un testo da interpretare alla lettera. Se in Europa il creazionismo è trattato alla stregua di una favola, negli USA molti lo vorrebbero insegnato nelle scuole al posto del darwinismo. Perciò, siamo di fronte ad un termine di paragone che non ha solo una valenza storica limi-tata, ma sembra piuttosto caratterizzare tutta la storia dell’Occidente.

Il rapporto tra la razionalità greca e il fideismo ebraico, tra Atene e Geru-salemme, è stato analizzato da una schiera di studiosi, tra i quali Strauss (1998), Hengel (2001), Śestov (2005) e Pellicani (1997, 2007a). Sebbene alcuni storici, come Max Weber e Max Scheler, all’inizio del XX secolo, ab-biano voluto vedere le radici della razionalità e del ‘disincanto del mondo’

nella combinazione tra ebraismo ed ellenismo, la maggior parte degli scien-ziati sociali tende piuttosto a rimarcare una incompatibilità tra le due visioni del mondo e, dunque, a ricondurre molte delle convulsioni dell’Occidente alla compresenza delle due tradizioni. Strauss (1998: 57) riconosce che «la storia occidentale si presenta come un tentativo di armonizzare o di sintetiz-zare la Bibbia e la filosofia greca», ma allo stesso tempo avverte «che ciò che per molti secoli è avvenuto in Occidente, e che ancora sta avvenendo, non è una armonizzazione, ma un tentativo di armonizzazione». Tutti i tentativi sono finora falliti, perché «ognuna delle due radici del mondo occidentale proclama un’unica necessità, e la sola cosa proclamata necessaria dalla Bib-bia è incompatibile, per come viene intesa dalla BibBib-bia, con la sola cosa pro-clamata necessaria dalla filosofia greca, per come viene intesa dalla filosofia greca… L’unica necessità per la filosofia greca è la vita intellettuale auto-noma. L’unica necessità proclamata dalla Bibbia è vivere in amore obbedi-ente. L’armonizzazione e la sintesi risultano impossibili, poiché la filosofia greca può assegnare all’amore obbediente una funzione ausiliaria, e la Bibbia può impiegare la filosofia come un’ancella. Ma ciò che in entrambi i casi viene adoperato in tal modo si ribella».

Pellicani non manca di sottolineare che l’operazione storiografica di We-ber e Scheler risulta assai poco attendibile, se si presta attenzione al fatto che il mondo giudaico-cristiano è tutt’altro che disincantato, ma piuttosto popo-lato da demoni, streghe, miracoli, interventi divini, tentazioni sataniche, esor-cismi, preghiere, apparizioni di angeli e vaticini profetici. Perciò, pare più corretto ricondurre geneticamente la nascita della Modernità al recupero della cultura pagana e greco-romana, piuttosto che ad uno sviluppo del giudeo-cristianesimo. Pellicani aggiunge che, aldilà dei simbolismi esteriori, «la

‘vera Europa’ oggi è pagana, non già cristiana». Dunque il bimillenario con-flitto fra Atene e Gerusalemme si è infine concluso con la vittoria di Atene.

Queste considerazioni ci inducono, in ogni caso, a fare un passo indietro e a dedicare qualche pagina al mito della Genesi, prima di immergerci nel pen-siero filosofico e scientifico greco.

La Genesi, ovvero la conoscenza come peccato

Il racconto della Genesi è di particolare interesse per la nostra ricerca, perché, oltre ad una celebre ontogenia, contiene una valutazione etica della cono-scenza. Sul piano strutturale, si tratta una collezione di scritti che risalgono in parte al X/IX secolo a.C. (fonte Jahvista) e in parte al VIII secolo a.C. (fonte Elohista). Le religioni cristiane hanno poi fatto proprio questo racconto e, perciò, i suoi contenuti sono ormai stati assorbiti dalla cultura popolare.

Premettiamo che, proprio perché si tratta di un testo molto noto, non ab-biamo ora la pretesa di proporne un’interpretazione nuova ed originale. Sia-mo anche consapevoli del fatto che, mentre il cristianesiSia-mo protestante rico-nosce al fedele il diritto di interpretare liberamente le sacre scritture, la Chie-sa cattolica ritiene di propria esclusiva competenza l’interpretazione delle stesse. Il fatto stesso di produrre una libera interpretazione potrebbe quindi essere visto da teologi cattolici come un’indebita invasione di campo. Ricor-diamo, però, che questo è un lavoro scientifico e che la scienza si è statuta-riamente data la libertà di invadere qualsiasi campo, facendo cadere la distin-zione fra sacro e profano. Proprio le regole etiche dello scetticismo organiz-zato e dell’universalismo, codificate da Merton, stabiliscono che non può essere limitata una ricerca in base al principio di sacralità o di autorità. In questo senso, il nostro libro è auto-esemplificante.

Tralasciamo la creazione del cielo e della terra, che dice poco sulla que-stione della conoscenza, e andiamo subito al quinto e al sesto giorno che nar-rano della comparsa degli animali e dell’uomo.

[20] Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo». [21] Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. [22]

Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra». [23] E fu sera e fu mattina: quinto giorno.

[24] Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie». E così avvenne: [25] Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. [26]

E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domi-ni sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie sel-vatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». [27] Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. [28] Dio li be-nedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggioga-tela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere viven-te, che striscia sulla terra».

L’uomo è creato ad immagine di Dio, anche se – si capirà più avanti nella narrazione – si tratta di una somiglianza solo esteriore. L’uomo non ha né la sapienza né l’eternità di Dio. Ad egli è però riconosciuto il potere su tutto il creato, il diritto di moltiplicarsi e di dominare la terra e tutte le altre specie viventi che la popolano. La legittimità a porsi come padrone dell’ente, piutto-sto che come papiutto-store dell’essere, per usare due espressioni di Martin Heideg-ger, viene dunque concessa all’uomo direttamente da Dio. Ciò che non è concesso all’uomo è la conoscenza, la sapienza, la consapevolezza (anche di tipo morale). Alla luce delle scoperte paleo-antropologiche in nostro posses-so, possiamo dire che il mito rappresenta piuttosto correttamente la condizio-ne umana. Il dominio tecnico dell’uomo sugli altri esseri è effettivamente indipendente dalla conoscenza scientifica e filosofica, al punto che la precede di milioni di anni. Per milioni di anni l’uomo ha prodotto tecniche senza pro-durre conoscenza o dottrine etiche.

Il problema della conoscenza viene affrontato nel capitolo secondo della Genesi. Qui si narra che, prima della creazione dell’uomo, nessuna erba campestre era spuntata perché nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo. Dio pianta quindi il giardino dell’Eden e vi colloca l’uomo perché si prenda cura di esso. L’uomo viene dunque creato ‘giardiniere’, quindi tecnico. L’uomo ha il dominio sulle altre creature, ma non si tratta a ben vedere di un dominio assoluto. È un dominio regolato da Dio stesso, che stabilisce il fine del lavoro umano e quindi la fun-zione dell’uomo. Non è l’uomo che pianta gli alberi del giardino, ma Dio stesso. L’uomo è semplicemente chiamato a prendersene cura e a trarne be-nefici nutrendosi dei frutti. Proprio per questo, nel giardino vi sono due alberi

che l’uomo non può toccare. «[9] Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. (…) [15] Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. [16] Il Signore Dio diede questo coman-do all’uomo: ‘Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, [17] ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti’».

Si noti che all’uomo è vietato mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male, ma non da quello della vita. Dunque, la conoscenza è frutto proibito, la vita non lo è. Ciononostante, dopo che l’uomo ha disobbedito all’ordine, il divieto viene esteso anche al frutto dell’albero della vita: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male.

Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dall’albero della vita, ne mangi e viva per sempre!».

Questo passo può essere interpretato in due modi: 1) l’uomo non ha anco-ra mangiato dall’albero della vita, nonostante l’assenza di un divieto, ma il frutto gli viene ora ufficialmente proibito; 2) l’uomo si è potuto finora nutrire di questo frutto, ma da ora in poi non potrà più farlo («non stenda più la ma-no…»). In ogni caso, Adamo è vivo («Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vi-vente») e resta vivo, anche dopo la cacciata dal paradiso. Evidentemente, l’albero in questione rappresenta non tanto la vita in senso generico, quanto la vita eterna. Adamo non muore in seguito alla cacciata dal paradiso, ma diviene mortale. In altre parole, l’uomo è inizialmente creato immortale e perde l’immortalità in seguito al peccato originale. Oppure, resta mortale, potendo in linea di principio divenire immortale, se vale la prima interpreta-zione, piuttosto che la seconda.

L’ambiguità è alimentata anche dalla incerta locazione degli alberi. In 2,9 l’albero al centro del giardino sembra essere quello della vita: «Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino…». Ma in 3,2 l’albero al centro è diventato quello della conoscenza del bene e del male:

«Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo Dio ha detto: Non ne dovete mangiare…». Qui è Eva che parla col serpente. E parla dell’albero della conoscenza del bene e del male, sul quale cadeva il divieto espresso in 2,17. Come si spiega la so-stituzione? È possibile che, relativamente a 2,9, sia intervenuto un errore nella trasmissione del testo.

Questa non è, comunque, l’unica incertezza interpretativa del racconto. In esso, si rilevano infatti non poche contraddizioni. Per esempio, inizialmente, la storia dice che Dio crea l’uomo a sua immagine, «maschio e femmina lui li creò». Da un passaggio successivo pare invece che Dio crei solo il maschio Adamo e, in un secondo momento, dalla costola di quest’ultimo crei Eva. Ma anche la creazione degli animali e dell’uomo solleva perplessità, perché ini-zialmente le scritture dicono che gli animali sono creati il quinto giorno e l’uomo il sesto, ma quando si parla del giardino dell’Eden le fasi della crea-zione sembrano invertite: «[18] Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che

Questa non è, comunque, l’unica incertezza interpretativa del racconto. In esso, si rilevano infatti non poche contraddizioni. Per esempio, inizialmente, la storia dice che Dio crea l’uomo a sua immagine, «maschio e femmina lui li creò». Da un passaggio successivo pare invece che Dio crei solo il maschio Adamo e, in un secondo momento, dalla costola di quest’ultimo crei Eva. Ma anche la creazione degli animali e dell’uomo solleva perplessità, perché ini-zialmente le scritture dicono che gli animali sono creati il quinto giorno e l’uomo il sesto, ma quando si parla del giardino dell’Eden le fasi della crea-zione sembrano invertite: «[18] Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che

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